Senza digitale non si cresce, non solo nella moda
di Gianluca Comin
Il diavolo instagramma Prada.
È questo il titolo ironico con cui la testata di riferimento del mondo finanziario, Bloomberg, ha aperto un lungo articolo di approfondimento su uno dei brand più rappresentativi del fashion italiano.
Raccontando l’atmosfera unica delle sfilate organizzate durante la recente Milan Fashion Week, i giornalisti autori del pezzo riportano una dichiarazione di Patrizio Bertelli, co-Ceo della società e marito di Miuccia Prada, che mi ha colpito molto.
Commentando i risultati al di sotto delle aspettative degli ultimi anni Bertelli afferma, con grande franchezza: «Abbiamo fatto un errore. Avremmo dovuto lanciare il nostro network digitale molto prima. Adesso ci stiamo lavorando, costruendolo e migliorandolo, e i risultati sono visibili».
Al di là della capacità di un imprenditore di ammettere uno sbaglio legato allo sviluppo del business, circostanza piuttosto rara e da gestire in modo accorto in termini di comunicazione, mi ha impressionato il ritardo con cui un’azienda emblema di un settore ha abbracciato le potenzialità del digitale.
Non si tratta in questa sede di fare processi alle intenzioni, quanto di trarne una lezione che vale in generale per le aziende, le istituzioni e tutti quei soggetti che per comunicare non possono prescindere dal web.
INSTAGRAM ARCHIVIA LE RIVISTE DI MODA
Stephanie Baker e Robert Williams, autori del reportage, riassumono in un passaggio fulminante la gigantesca portata del cambiamento che ha sconvolto nel giro di pochi anni la moda: invece di entrare in un negozio e comprare una borsa dopo aver letto una rivista, è più probabile che i clienti l’abbiano vista su Instagram indossata da una fashion blogger, l’abbiano cercata su Google e poi l’abbiano acquistata online.
Un cambio di paradigma e di abitudini radicale, che ha totalmente cambiato le regole del gioco. Soprattutto, una ridistribuzione inaspettata dei ruoli che ha invertito le dinamiche.
La rivista a cui accenna l’articolo è ovviamente il simbolo di un sistema mediaticopotentissimo, contraddistinto da testate di culto (come Vogue) e dalla presenza di guru riconosciuti come unici opinion-leader titolati a dettare le regole della moda.
Pensiamo al personaggio interpretato da Meryl Streep in Il diavolo veste Prada: una giornalista capricciosa, venerata e temuta, sia dai collaboratori sia dagli stilisti che si sottopongono al suo giudizio.
Oggi la promotrice di un determinato stile o un di accessorio può essere una blogger semisconosciuta ai più, in grado di lavorare alla propria immagine e di utilizzare i social media, soprattutto Instagram, come formidabili canali di amplificazione.
Viene a cadere l’aura di inavvicinabilità, la distanza abissale tra il pubblico dei lettori e la redazione, la possibilità di influenzare le scelte dei grandi marchi con un sì o con un no. È un po’ quello che è avvenuto in molti altri campi: un editoriale di fuoco contro una figura politica o un reportage contro un’azienda, se limitati alla stampa cartacea, hanno un impatto diverso rispetto al passato.
Il Quarto Potere è vivo e vegeto, ma è profondamente mutato. Il potere censorio su un dato fenomeno o la “patente” concessa a una determinata scelta politica non hanno più lo stesso valore inappellabile di un tempo. Il ruolo degli influencer, in ambito marketing, è proprio questo: scardinare le intermediazioni, poiché a consigliarci un prodotto non è un esperto ma “uno di noi”.
L’identificazione è totale, anche nelle scene di vita vissuta che vengono affidate ai social (e che non sono certo assimilabili alla compostezza di un servizio fotografico).
IL DIGITALE È UNA VIA OBBLIGATA PER CRESCERE
Infine, le abitudini di consumo. Le boutique in centro non hanno smesso di assolvere alla loro funzione di proiezione dei nostri desideri, ma affiancate da un nuovo canale: l’e-commerce.
Ecco perché, tornando alla dichiarazione autocritica di Patrizio Bertelli, non essere presenti in modo adeguato sul web porta a una riduzione delle possibilità di crescita.
Se restiamo nell’ambito del marketing sembra quasi lapalissiano sostenere l’importanza di una adeguata strategia di comunicazione digitale.
La riflessione può essere ovviamente allargata a tanti casi. La comunicazione politica si combatte da anni a colpi di social, le aziende hanno compreso che i propri stakeholder (anche quelli istituzionali e i media) vanno raggiunti con una buona presenza su Twitter, l’Employer Branding si costruisce anche con efficaci campagne su LinkedIn, la comunicazione culturale non può prescindere da una estensiva attività sui social (Instagram, in primis) coinvolgendo influencer riconosciuti della Rete come ospiti in anteprima di una mostra o di un’installazione. La “scoperta tardiva” del digitale non è una colpa.
È soltanto il sintomo di un adeguamento, più o meno veloce, al pieno utilizzo di un canale che ha assunto un’importanza ormai paragonabile a quella degli strumenti tradizionali. E di un trend che non è passeggero, ma che ha appena incominciato a dimostrare la propria carica di innovazione e cambiamento.