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Riportiamo Le Emozioni Del Consumatore Al Centro

Riportiamo le emozioni del consumatore al centro

di Gianluca Comin

Emozioni del consumatore: in un bell’editoriale apparso sul Corriere della Sera la settimana scorsa, Dario Di Vico parla di un nuovo protagonismo dei consumatori nelle relazioni industriali, nelle quali conta sempre di più il grado di empatia che un’azienda riesce a sviluppare con la platea dei potenziali acquirenti dei propri prodotti.

Niente di nuovo, potrebbe dire qualcuno: da sempre il marketing è uno strumento fondamentale per il buon andamento di un’impresa, perché permette di presentare il frutto della produzione come un oggetto dal cui acquisto derivano, alternativamente, riconoscibilità sociale, soddisfazione dei propri bisogni, valorizzazione della propria persona.

Il ragionamento dell’editorialista economico del Corriere è però più raffinato: quello che sembra fare la differenza è la possibilità di stabilire un rapporto diretto (disintermediato, per utilizzare un termine alla moda) tra la forza lavoro di aziende in difficoltà e coloro che possono fare qualcosa di concreto per farle uscire dalla crisi: i consumatori.

Non si tratta dunque di promozione pubblicitaria, ma di un messaggio molto chiaro e facilmente amplificabile sui social media, un appello che mira appunto a suscitare l’empatia di coloro che si troveranno di fronte ad un prodotto apparentemente indistinguibile dagli altri, se non per il valore sociale che possiede per la comunità dei lavoratori coinvolti.

Emozioni per il consumatore: oltre il valore materiale 

Gli esempi recenti sono molti e di diversi settori: ha colpito, in particolare, la mobilitazione sul web a sostegno della Melegatti di Verona (in un momento dell’anno in cui l’acquisto di pandori può fare la differenza per un’azienda dolciaria in crisi), così come quella che si verificò all’insegna dell’hashtag #saveRummo quando un’alluvione provocò gravi danni al pastificio Rummo di Benevento, nell’ottobre 2015. L’empatia è sicuramente un ingrediente fondamentale per le nostre strategie di comunicazione.

Dal punto di vista di un’impresa, infatti, è innegabile che dichiarare la propria eccellenza e l’alta qualità di un prodotto può essere il punto di partenza, ma non basta.

Quello che conta sempre di più, abbiamo avuto spesso modo di parlarne in questa rubrica, è anche il valore aggiunto che un consumatore percepisce oltre al valore “materiale” del prodotto che acquista. Sono molti gli interrogativi ai quali un’azienda è chiamata a dare risposte concrete e credibili: qual è l’impatto sociale e ambientale delle proprie attività? In quale contesto i lavoratori si trovano ad operare?

Questa è un’altra domanda su cui si gioca in modo importante la reputazione e il posizionamento di un’impresa. Lo abbiamo visto di recente nel caso di colossi come Ikea (polemiche per il licenziamento di una lavoratrice) e Amazon, ma anche di protagonisti della sharing economy come Foodora: la percezione di una possibile “unfairness” nel trattamento delle proprie risorse è in grado di innescare contraccolpi reputazionali che vanno a discapito del valore del brand e dell’effettiva qualità dei prodotti e dei servizi offerti.

Il meccanismo, a pensarci bene, è simile nella sua dinamica a quello che abbiamo visto nascere spontaneamente nel caso di Melegatti e del pastificio Rummo: il rapporto potenzialmente asettico e basato su un calcolo razionale costi-benefici del consumatore tipo si stempera per effetto di una valutazione puramente emotiva, che lega la decisione d’acquisto alla soddisfazione di un bisogno non solo materiale.

La consapevolezza di aver contribuito in modo attivo alla risoluzione di una crisi industriale o a risollevare un’azienda in ginocchio per via di una catastrofe naturale è infatti un elemento di arricchimento per il consumatore, che va ben oltre la qualità del dolce natalizio e della pasta che ha messo nel carrello. Questa attività porta a delle emozioni per il consumatore.

Emozioni del consumatore: i numeri non bastano 

Quale lezione possiamo trarre da questi esempi dal punto di vista di un comunicatore d’impresa? Il valore emozionale della comunicazione è qualcosa di ormai assodato.

Dopo tutto, anche le campagne più istituzionali si appellano di frequente a elementi di pura razionalità (la forza lavoro impiegata, il numero di sedi, gli investimenti sul territorio, il fatturato, il tasso di crescita, i dividendi assicurati agli azionisti), inserendoli però in una cornice di valori condivisi che non si esprimono in cifre: il ruolo sistemico che si ambisce a ricoprire, la visione dell’evoluzione del proprio settore che si intende portare avanti, gli obiettivi di sostenibilità ambientale e sociale che si ritengono imprescindibili, l’impegno concreto per la formazione o per la creazione di processi di alternanza scuola-lavoro.

Una segmentazione da non esasperare

Questa “riserva di emozioni” diventa quindi un patrimonio da attivare sia nel caso di eventi non controllabili sia quando la diffusione di notizie imprecise può provocare un appannamento, più o meno temporaneo, della nostra reputazione.

Quando parliamo di noi, dunque, dobbiamo certamente distinguere i pubblici ai quali ci rivolgiamo, ma senza esagerare nella segmentazione. Per consumatori sempre più informati, esigenti e consapevoli una comunicazione eccessivamente schiacciata sulle caratteristiche “tecniche” dei prodotti (o, comprensibilmente, sulla convenienza del prezzo) può essere di sicuro utile per il marketing, ma non deve sottovalutare l’importanza degli altri elementi associabili al nostro brand.

Alla razionalità di un buon acquisto si accompagna sempre più spesso (e a volte si sostituisce!) una componente emozionale che, se ben gestita, possiamo alimentare e costruire.

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