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Progetti E Proteste, Così Si Passa Dallo Scontro Alla Cooperazione

Progetti e proteste, così si passa dallo scontro alla cooperazione

di Gianluca Comin

Dallo scontro alla cooperazione: nessun grande progetto, soprattutto infrastrutturale, viene portato a termine senza che emergano proteste o manifestazioni di dissenso che mirano a impedirne la realizzazione. Lo vediamo tutti i giorni sui giornali e sui telegiornali, oltre che sul web e sui social media.

Dallo scontro alla cooperazione: posizioni che sono amplificate

Il moltiplicarsi di canali e spazi di comunicazione ha certamente facilitato la diffusione dei nostri messaggi, ma aumenta in modo esponenziale il rischio che a essere amplificate siano in realtà posizioni contrarie al progetto o addirittura totalmente infondate. Informazioni “anti” che possono provenire in molti casi proprio da quelle organizzazioni, nate più o meno spontaneamente, che mirano a bloccare il più possibile il cantiere di un’opera pubblica dissuadendo le istituzioni e le aziende coinvolte.

Rischio per il nostro business 

Managing Activism è il titolo del volume pubblicato nel 2001 dall’esperta irlandese di relazioni pubbliche Denise Deegan e che ho sempre considerato uno dei manuali più utili per gestire un’importante fonte di rischio per il nostro business. Dal punto di vista di un’azienda infatti, non è sufficiente (e non lo è mai stato, almeno negli ultimi decenni) limitarsi a comunicare i punti di forza di un progetto agli azionisti e fare in modo che l’iter autorizzativo venga seguito con scrupolosità.

L’improvviso ingresso in campo di gruppi di pressione concentrati a livello locale cambia le regole del gioco: le proteste, spesso molto aggressive, hanno in molti casi un effetto immediato sui decisori (molto sensibili al tema del consenso) e sui media, che tenderanno a dare ampio risalto a “chi dice no” e meno a chi gioca in difesa.

Ridurre l’approccio aggressivo

Con un effetto complessivo, in termini di percezione del progetto, di difficile controllo: si rischia infatti di lasciar sedimentare in molti cittadini che vivono in quel contesto territoriale la certezza che il progetto sia avversato dalla maggioranza, generando la cosiddetta “spirale del silenzio”. La chiave, scrive Deegan nel suo libro, non è silenziare o ignorare le proteste, quanto fare il più possibile in modo che l’approccio aggressivo ceda il passo alla disponibilità alla cooperazione o, almeno, all’ascolto.

Protesta da studiare attentamente

Prima di tutto, Deegan suggerisce di studiare con attenzione le “dinamiche” della protesta: chi sono coloro che si oppongono al nostro progetto? E che cosa vogliono davvero? I gruppi di pressione possono essere, per esempio, single-issue (perché concentrati su un’unica tematica) oppure promuovere un’agenda più ampia e variegata (i diritti dei lavoratori, la tutela del territorio, eccetera).

Tav: bombe carta contro il cantiere
Scontri tra polizia e No Tav.

Portare avanti in modo assertivo una battaglia richiede ovviamente l’applicazione di una serie di tecniche: raccolta firme, marce, azioni dimostrative riprese dai media (pensiamo agli attivisti di Greenpeace contro le baleniere), inviti al boicottaggio, la diffusione di dati scientifici a sostegno delle proprie tesi, il coinvolgimento di “celebrity”.

Danni economici e reputazionali

Ci sono poi strategie di più ampio respiro: la creazione di spazi di comunicazione autogestiti da cui rilanciare costantemente i propri messaggi (in passato riviste, oggi profili e gruppi ad hoc sui social media) e la messa in campo di azioni mirate di lobbying che rendano più stringenti le norme attualmente in vigore. Una serie di attività di disturbo che può rallentare in modo importante il nostro progetto e colpire un’azienda nel suo punto più debole: la solidità economico-finanziaria, oltre alla reputazione tout court.

Tre cose da evitare assolutamente 

Vediamo ora cosa dobbiamo evitare di fare, secondo l’autrice del libro: reagire alle proteste con un comodo “business as usual”, ignorare i gruppi di pressione cercando di portare l’opinione pubblica dalla propria parte oppure cercare di persuaderli direttamente (ma velleitariamente) della bontà delle nostre posizioni, passando dallo scontro alla cooperazione.

La vera sfida, anche di visione del problema stesso, consiste invece nel guardare con occhi diversi chi ci sta di fronte. È la ricerca accademica, secondo la Deegan, ad aver dimostrato che nel momento in cui due fronti contrapposti percepiscono una volontà a cooperare e una disponibilità al negoziato il livello generale di aggressività diventa passo dopo passo più contenuto.

Ribadire l’impegno dell’azienda

Dallo scontro alla cooperazione: un atteggiamento puramente difensivo da parte del committente di un progetto serve solo a creare muri; un flusso di comunicazione in entrambe le direzioni non elimina i motivi di conflitto, ma porta con gradualità entrambi gli attori nel territorio del “win-win”. Questo può avvenire ribadendo l’impegno dell’azienda a stimare l’impatto ambientale di un progetto o a implementare ulteriori misure di mitigazione del rischio, rafforzando un capitale relazionale fatto di incontri e scambio di informazioni per ridurre l’ostilità e la diffidenza reciproca.

Certo, se una situazione è molto degradata la contrapposizione tra una minoranza agguerrita e l’azienda è quasi inevitabile. Al contrario, mettere “a terra” un progetto adottando dal primo giorno una mentalità che intende inquadrare i motivi di potenziale dissenso, conoscere coloro che si contrappongono a noi e le basi su cui trovare un terreno comune di confronto permette di predisporre un buon management dell’attivismo.

Reagire tardi è pericolo

Dallo sconto alla cooperazione: viceversa, ignorare i gruppi di pressione o reagire in modo tardivo alle loro rimostranze è un segno di grande debolezza più che di forza. Un rischio che non possiamo correre se a essere in gioco non è solo un singolo progetto, ma la strategia di espansione e il business stesso della nostra azienda.

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