Pepsi, non si scherza con l’impegno politico e i diritti civili
Una giovane modella impegnata in uno shooting fotografico, le strade invase da manifestanti per la pace, la decisione improvvisa della ragazza di abbandonare il set e di unirsi sorridente ai coetanei. Infine, l’immagine-simbolo: il confronto silenzioso tra i manifestanti e un cordone di poliziotti anti-sommossa, simbolo dell’autorità e dell’ordine costituito. Una contrapposizione ricca di tensione a cui porre fine offrendo a un agente una lattina di Pepsi, per poi esplodere in un momento di gioia liberatoria.
Qualcosa è andato storto. Gli ingredienti che il colosso americano delle bevande gassate aveva mixato nel nuovo ambiziosissimo spot (quasi un cortometraggio) erano stati selezionati con il chiaro scopo di parlare a un pubblico giovane e disincantato come quello dei Millenial, i nati tra gli Anni 80 e i primi Anni 2000: il fascino della starlette televisiva da reality show (Kendall Jenner, sorellastra di Kim Kardashian), la celebrazione di valori universali come la libertà e l’armonia (il corteo è evidentemente multi-etnico), un approccio ideale che non si limita a promuovere il consumo di un prodotto, ma si dimostra piuttosto in linea con lo spirito dei tempi. Eppure qualcosa è andato storto.
La campagna della Pepsi, differentemente dalle attese, si è rivelata infatti un flop clamoroso, che ha suscitato l’indignazione dell’opinione pubblica americana e una debordante ondata di ironia sul web. Troppi e troppo evidenti i numerosi errori di cui disseminato lo spot, a partire dalla scelta infelice di una testimonial di indiscusso appeal, ma difficilmente inquadrabile come un esempio di impegno civile. È normale che i grandi di Hollywood prendano posizione su temi di interesse pubblico (pensiamo alle campagne ambientaliste di Leonardo di Caprio o allo spirito umanitario di Angelina Jolie), ma la rampolla della famiglia più trash e chiacchierata d’America non era forse la più indicata.
Tematica già incandescente. Scivolosa anche la scelta di un tema come la protesta: negli Stati Uniti proseguono da mesi dibattiti molto aspri sull’onda della campagna per la fine delle discriminazioni contro la comunità afroamericana da parte delle forze dell’ordine, #BlackLivesMatter. Per non parlare di coloro che sono scesi in strada per esprimere il loro dissenso nei confronti del nuovo presidente Donald Trump. Accostare il brand di Pepsi a una tematica così delicata e incandescente non è solo rischioso, ma depotenzia anche il concept alla base della campagna: quali sono i valori in cui crede l’azienda? Basta inserire una ragazza con il velo o un giovane afroamericano per dare sostanza all’impegno di Pepsi sul fronte della pace e dell’armonia sociale? Strumentalizzazione e accuse di buonismo sono sempre dietro l’angolo.
Non è molto utile dissezionare lo spot alla ricerca delle altre leggerezze commesse dagli ideatori o per decifrare i riferimenti più o meno nascosti: i cartelli dei manifestanti che invitano a unirsi alla protesta contengono frasi passe-partout ma vacue come “Partecipate alla conversazione”, la castana Jenner viene ritratta mentre si libera di una parrucca bionda per poi lanciarla contro un’ignara assistente di colore, il confronto silenzioso con la schiera di poliziotti ricorda in modo quasi irrispettoso immagini entrate nella storia come lo sconosciuto studente di piazza Tienanmen o le proteste di Martin Luther King per i diritti civili.
Un’azienda privata faccia altro. Non a caso la figlia minore di King, Bernice, ha commentato in modo ironico su Twitter: «Se solo mio padre avesse saputo del potere di Pepsi…». Quello che conta è il risultato finale: il ritiro frettoloso della campagna dopo 48 ore, accompagnato da un comunicato stampa in cui Pepsi si scusava per aver fallito nel tentativo di lanciare «un messaggio universale di unità, pace e comprensione». Un compito che evidentemente non spetta a un’azienda privata o che richiedeva almeno uno sforzo in più per evitare il pericolo di un indigesto pot-pourri di luoghi comuni e immagini iconiche reinterpretate grossolanamente.
La buona riuscita di una campagna di comunicazione corporate è indubbiamente legata alla qualità creativa di ciò che viene diffuso, oltre a un insieme di fattori di contesto difficilmente controllabili: il momento politico, i temi che dominano l’agenda dei media, l’evoluzione dell’immagine del testimonial scelto, la ricezione da parte di determinati settori dell’opinione pubblica. Al netto dell’ingenuità stilistica che caratterizza secondo i critici questo spot, sono dunque altre le scelte che risultano mal calibrate: il poco giustificato tentativo di trasformare una bevanda gassata in uno strumento di mobilitazione sociale, l’identificazione con un personaggio dello show business anziché con una vera rappresentante di importanti battaglie civili, la sottovalutazione della pronunciata sensibilità del pubblico americano per tematiche come il rapporto tra manifestanti e forze dell’ordine o l’uguaglianza razziale.
Fallimento per eccesso di stereotipi. Il messaggio per Pepsi e per noi comunicatori è evidente: non si scherza con temi come l’impegno politico e la difesa dei diritti. Anziché essere travolti dal politically correct, come spesso succede, è accaduto però il contrario: è stato proprio l’eccesso di stereotipi a trasformare le buone intenzioni comunicative di Pepsi in un doloroso incidente reputazionale.
*Twitter: @gcomin