La lotta alle fake news? Interessa anche alle aziende
Siamo abituati a pensare che le fake news, notizie prive di fondamento rilanciate sul web da siti non affidabili, siano esclusivamente un problema del mondo politico e che pongano innanzitutto una sfida “esistenziale” ai media ufficiali. Il successo messo a segno da Donald Trump negli Stati Uniti anche cavalcando l’effetto di bufale e dichiarazioni non veritiere diffusesi a macchia d’olio sui social media ha costituito il primo campanello d’allarme, a cui è seguita l’inquietudine suscitata dall’esito della battaglia referendaria per la Brexit. Uno scontro di opinioni in cui argomenti seri si sono irrimediabilmente mischiati a supposizioni e volute inesattezze.
Reputazione a rischio. Un dibattito pubblico contaminato da menzogne confezionate ad arte rappresenta però una sfida per tutti gli attori sociali, inclusi gli operatori economici. Immaginiamo, per un attimo, che la Rete si riempia improvvisamente di presunte notizie errate su un nostro prodotto oppure che siti non verificati dichiarino la scarsa affidabilità della nostra azienda in materia di sostenibilità ambientale o di sicurezza. Il danno reputazionale potrebbe essere notevole e molto difficile da risolvere con la dovuta rapidità.
Il caso Starbucks. Qualche settimana fa il Financial Times ha dedicato un interessante articolo al pericoloso effetto che le fake news hanno sull’immagine e il business delle società. Un caso su tutti quello che ha riguardato il colosso statunitense Starbucks, noto in tutto il mondo per le mille declinazioni dei suoi prodotti, dal più tradizionale caffè espresso ai variegati frappuccini. Proprio una falsa notizia sul caffè ha messo di recente a dura prova la reputazione di Starbucks: su Twitter si sono infatti diffusi annunci pubblicitari del tutto simili a quelli normalmente utilizzati dall’azienda che reclamizzavano la distribuzione gratuita di frappuccini agli immigrati irregolarmente presenti negli Stati Uniti. Prevedibile l’ondata di reazioni piccate che la notizia ha scatenato in breve tempo sui social media, in un momento in cui il tema dei migranti è una delle questioni più roventi per l’opinione pubblica, non solo statunitense. Starbucks ha reagito in modo puntuale, rispondendo ai singoli utenti e spiegando che si trattava di un palese caso di disinformazione. Il quotidiano finanziario della City non ha dubbi: si tratta dell’ennesima dimostrazione di come la diffusione incontrollata di contenuti non verificati richieda una vigilanza costante e una spiccata creatività nella reazione.
I casi sono sempre più numerosi: rumours infondati sulla chiusura di una catena di prodotti di bellezza (Ulta) o, peggio ancora, la presunta morte di un teenager a causa di una consolle Xbox. Per non parlare delle finte dichiarazioni attribuite agli amministratori delegati: un attacco a Donald Trump mai pronunciato dall’ad di Pepsi, Indra Nooyi, ha innescato a fine 2016 una campagna di boicottaggio sui social animata dai sostenitori del neo-eletto Presidente degli Stati Uniti.
Monitoraggio costante. Quali sono gli strumenti fondamentali per reagire a questo tipo di crisi? Innanzitutto, il monitoraggio: non possiamo rispondere in modo efficace a false notizie sulla nostra azienda se non monitoriamo costantemente le conversazioni sul web. Un monitoraggio che deve essere continuo e spaziare dai siti di informazione ai blog, dai commenti agli articoli di giornale ai post sui principali social media. Solo vigilando ogni giorno su ciò che viene detto e scritto dagli utenti, possiamo acquisire gradualmente la capacità di prevedere eventuali elementi di debolezza o di contenere il dilagare delle fake news sul nostro conto intervenendo con una smentita o con la versione ufficiale dei fatti. Sul mercato ci sono molti prodotti, ma sarà utile scegliere quelli capaci di semplificare i report e di indicare con precisione il sentiment positivo o negativo delle conversazioni online.
La voce dei dipendenti. Una gestione accorta e centralizzata, però, non basta. L’articolo riporta l’opinione di Leslie Gaines-Ross, la chief reputation strategist di Weber Shandwick, che condivido pienamente. Sono i nostri dipendenti e colleghi lo strumento che può davvero fare la differenza. Persone che, al di fuori del loro ruolo in azienda e in modo anche scollegato rispetto all’ambito professionale di appartenenza, sono prima di tutto utenti comuni del web, posti sullo stesso piano di coloro che possono potenzialmente attaccarci. Il monitoraggio non va ovviamente “delegato” a loro, ma può essere potenziato se li sensibilizziamo sulla necessità di segnalare eventuali notizie incongrue, prima che esse si diffondano al grande pubblico. Inoltre, una loro presenza autorevole sui social media, dichiarando alla luce del sole per quale azienda lavorano, può permettere di diffondere ancor più rapidamente la nostra posizione su un dato tema.
Strategie a più livelli. Un post pubblicato sulla pagina Facebook di un’azienda rappresenta la voce ufficiale, con tutti i formalismi e limiti espressivi del caso. La testimonianza di un dipendente è invece più autentica e dinamica: le nostre risorse possono infatti ingaggiare direttamente familiari, amici e conoscenti, spiegando loro perché una data notizia è priva di fondamento e condividendo esperienze di vita vissuta sul luogo di lavoro. La battaglia contro le fake news va condotta su più livelli: mettendo in piedi team di manager che siano in grado di dare vita a risposte rapide e integrate, ma anche creando un clima aziendale che permetta a ognuno di diventare testimonial autentico della verità.
*Twitter: @gcomin