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Il Flop Dei Big Data E Non Solo: Cosa Ci Insegna Trump

Il flop dei big data e non solo: cosa ci insegna Trump

A una settimana dal voto che ha incoronato l’immobiliarista repubblicano Donald Trump nuovo presidente degli Stati Uniti, ci stiamo abituando a immaginarlo accomodato in poltrona nello Studio ovale.
Non è un mistero che gran parte del pubblico (e quasi tutti i media) del Vecchio Continente tifasse spregiudicatamente per la democratica Hillary Clinton, ma le cose non sono andate come ci aspettavamo.

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Simpatie da archiviare. Ora che la polvere dello scontro inizia a posarsi, dobbiamo mettere da parte le nostre simpatie e fare uno sforzo di elaborazione.
Ecco quattro lezioni che possiamo provare a trarre dall’inaspettata vittoria di Trump.

1. I media sono ininfulenti: non hanno spostato l’orientamento degli elettori

I grandi giornali americani hanno raccontato giorno per giorno le scaramucce tra i due candidati, le loro dichiarazioni, il loro passato, la loro idea di America.
In linea con una tradizione tutta americana (che da noi sembrerebbe quasi un’eresia) hanno annunciato pubblicamente il loro endorsement a uno dei due competitor e nella quasi totalità dei casi la scelta è caduta sulla democratica Clinton: esperta, combattiva, da sempre in difesa dei diritti civili.

Coalizzati contro Donald. Al contrario, Donald Trump è finito sin dal primo giorno nel tritacarne mediatico, anche per via del suo modo di porsi aggressivo e sopra le righe.
Al di là dei giudizi di merito, un fatto è certo: i media non sembrano aver spostato l’orientamento degli elettori.
Anzi, una delle argomentazioni su cui Trump è stato più martellante è che i mezzi di informazione erano coalizzati contro di lui e contro l’America che rappresentava.
Bufale e account fantasma a parte, è stato il calderone dei social media a rivelarsi il vero termometro degli umori dell’America profonda.

Il 62% si informa sui social. Secondo il Pew Research Center, il 62% degli statunitensi si è infatti informato sui social network.
D’altronde è utilizzando in modo fin troppo sfacciato il suo account Twitter (personale) che Donald Trump ha stabilito un rapporto totalmente disintermediato con la massa degli elettori.

2. Non è stato un flop totale dei sondaggi: ma serve più qualità dei dati

Il dibattito, come è accaduto anche dopo la spiazzante vittoria del fronte pro-Brexit a giugno 2016, si è scatenato immediatamente.
I sondaggisti sono stati identificati dall’opinione pubblica come i responsabili di un altro clamoroso errore di valutazione, che sembrerebbe suggerire l’inutilità delle rilevazioni.
Una ricostruzione a cui si è opposto con fermezza il guru dei sondaggisti americani Nate Silver e che è stata smentita anche da Jon Cohen, Senior vice president di Survey Monkey e già sondaggista per il Washington Post.

Battezzato il candidato sbagliato. La novità di questa elezione non è tanto lo scarto tra le previsioni e il risultato, ha sostenuto Cohen, ma il fatto che tutte le rivelazioni abbiano dato per vincente il candidato sbagliato.
Più che rigettare in toto questo strumento, sarebbe utile lavorare meglio sulla qualità dei dati raccolti.

3. Nessuno è il vero interprete del “popolo”: ci sono la rabbia e la speranza

Chi, come noi, appartiene alla ristretta comunità degli osservatori, non può mai cadere nell’errore di ritenersi un autentico interprete del “popolo”.
L’America bianca, arrabbiata, depauperata dall’onda lunga della globalizzazione a cui ha parlato Trump non è certo meno legittima di quella incarnata dal presidente della speranza, Barack Obama.

Hillary troppo nel “sistema”. Non a caso sono gli uomini “dimenticati” quelli a cui ha rivolto il suo tributo The Donald dopo aver soffiato la Casa Bianca a una candidata percepita come parte integrante del “sistema” e come la meno adatta a rappresentare un’insopprimibile voglia di cambiamento.

4. Chi vota non vuole più professionisti: meglio il ”nuovo” dell’esperienza

Il desiderio di rottura con il passato sta diventando la cifra distintiva dell’attuale fase politica: gli elettori sembrano infatti preferire il “nuovo” all’esperienza.
Hillary era la candidata migliore sulla carta per curriculum e statura morale, ma è stata inaspettatamente battuta da un uomo d’affari con alle spalle diversi fallimenti e un ruolo pubblico legato al successo di un reality show.

Altro che big data! Anche se confrontiamo le rispettive strategie elettorali, non possiamo non concludere che la ferrea organizzazione e il genio strategico dei Campaign manager della macchina elettorale clintoniana nulla hanno potuto contro l’inarrestabile capacità di penetrazione del messaggio di Donald Trump.
Un “Make America great again” che, stampato su cappellini e magliette (altro che Big data!) è diventato il grido di battaglia che ha portato gli Stati in bilico a scivolare nel paniere del Grand Old Party.

Quelli che ho cercato di sintetizzare sono solo alcuni punti fondamentali che ho cominciato ad analizzare la mattina stessa delle elezioni, ma che sono a mio avviso una buona base per una riflessione di lungo termine.

L’improvvisazione pagherà? Restano molti nodi da sciogliere: l’improvvisazione è sempre in grado di far deragliare anche la più perfetta delle organizzazioni?
E siamo sicuri che la mancanza di esperienza non si trasformi nel più grave motivo di debolezza per un outsider giunto nella “stanza dei bottoni”?
La storia della presidenza Trump è ancora tutta da scrivere, ma noi comunicatori stiamo già prendendo appunti.

Twitter @gcomin

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