skip to Main Content
Con La Cultura Non Si Mangia? In Azienda Può Fare La Differenza

Con la cultura non si mangia? In azienda può fare la differenza

Il termine “Corporate social responsibility”, spesso abbreviato sbrigativamente in Csr, è entrato ormai stabilmente nel lessico manageriale e dei media. Un’espressione che indica tutte quelle attività che un’azienda mette in campo nell’ottica di creare valore per il contesto sociale in cui opera, sia in termini di iniziative per il pubblico sia di autentici investimenti di medio-lungo termine. Un concetto che può essere però declinato ulteriormente in modo da mettere in evidenza l’impatto sociale di una categoria particolare di investimenti: quelli in ambito culturale. La base su cui fondare una “Corporate cultural responsibility” (Ccr).

DigitalLife

Settore poco sfruttato. Sono stati scritti litri di inchiostro sul tema della cultura come fattore di sviluppo del nostro Paese, dotato di un patrimonio culturale e paesaggistico che non ha eguali a livello globale. Ciononostante, è ancora difficile valutare le risorse che un’azienda decide di destinare alla cultura con gli stessi parametri che utilizziamo normalmente per i fondi impiegati in altre aree, come l’ambiente.

Essere sostenibili si esplica indubbiamente tramite un’attenzione costante per le ricadute sulla natura delle nostre attività imprenditoriali, ma il concetto di “sostenibilità” dovrebbe ricomprendere anche il fattore culturale. Una formula come Corporate cultural responsibility va proprio in questa direzione ed è, non a caso, al centro di una ricerca presentata lunedì 15 maggio 2017 nella sede di Roma dell’Associazione Civita, alla presenza del ministro dei Beni e delle attività culturali Dario Franceschini.

Aspetto da includere. Un lavoro che nasce dall’impegno del comitato “Arte & Impresa” guidato dalla collega Simonetta Giordani e che mira a includere in modo più sistematico la “responsabilità culturale” nelle strategie di sostenibilità delle aziende. Come affermato da Giordani nella prefazione allo studio, la ricchezza culturale dell’Italia la rende a tutti gli effetti un «laboratorio unico per sperimentare nuove politiche di sostenibilità all’insegna del fattore cultura». Ma partiamo dai numeri.

L’analisi, condotta da Unicab sotto il coordinamento del Centro studi “Gianfranco Imperatori”, ha coinvolto un campione rappresentativo di oltre mille imprese italiane che hanno investito in cultura negli ultimi cinque anni e conferma innanzitutto alcuni trend interessanti: la redazione di un autentico report di sostenibilità è ancora appannaggio di una minoranza di aziende di grandi dimensioni (il 36% del campione), mentre perdura l’assenza di indicatori specifici che possono essere utilizzati per rendicontare l’ammontare di risorse che l’impresa dedica ad attività culturali.

Difficoltà nel comunicarlo. Il 14% delle realtà interpellate sceglie inoltre di farlo prevalentemente per motivi reputazionali e in modo molto spesso non continuativo (47%). Un’altra potenziale criticità è legata all’effettiva capacità di valorizzare in termini comunicativi queste scelte aziendali: solo il 46% delle imprese si ritiene efficace nel farlo e l’88% di esse ricorre al sito web corporate come vetrina per raccontare il proprio impegno culturale.

Non solo mecenatismo. A prevalere è l’esigenza di promuovere in contesti nuovi o inesplorati il proprio brand, privilegiando la visibilità come primo parametro di valutazione degli investimenti. Da ultimo, un aspetto che rischia di passare in secondo piano, ma che è altrettanto fondamentale: che rilievo assume la cultura nei bilanci aziendali? Solo il 36% delle aziende redige un report integrato o un bilancio sociale, ma la cultura appare la grande assente: il 70% delle imprese lamenta infatti la mancanza di indicatori standard come il principale ostacolo all’inserimento nella rendicontazione di tali particolari investimenti. Un’evoluzione in tal senso potrebbe cambiare il modo stesso in cui le aziende si avvicinano al mondo della cultura: non solo mecenatismo, ma soprattutto strumento in linea con gli obiettivi strategici di un’impresa.

Cultura è un concetto che abbraccia molti ambiti, ma ce n’è uno che sembra essere l’ideale per conseguire l’obiettivo di ingaggiare in modo diretto e continuativo i nostri stakeholder: lo spettacolo dal vivo. Realtà consolidate e autorevoli come la Biennale di Venezia o dinamiche e in costante evoluzione come il Romaeuropa Festival, storica manifestazione della Capitale che unisce teatro, danza e musica, sono infatti l’ideale per iniziative tailor-made, durante le quali il contatto con potenziali clienti, stakeholder o rappresentanti delle istituzioni è diretto e disintermediato.

Effetti positivi sull’immagine. Il “qui e ora” delle performance, a differenza di una mostra permanente, consente di conferire all’esperienza un valore di unicità ed esclusività tutto particolare, con ricadute concrete sull’efficacia delle nostre strategie di ingaggio e di immagine. Sia in termini di sostenibilità sia per il rafforzamento delle relazioni con i propri stakeholder, la cultura è un fattore in grado di fare la differenza. Ne siamo consapevoli?

*Twitter: @gcomin

Back To Top