Comunicazione finanziaria, un aspetto fondamentale per le aziende
di Gianluca Comin
Comunicazione finanziaria: le relazioni con gli investitori e la comunicazione finanziaria sono parte integrante delle attività che un’azienda prevede per relazionarsi in modo continuativo e autorevole con i propri stakeholder. Parlare efficacemente agli azionisti e ai mercati, insomma, ha la stessa valenza strategica di una buona copertura mediatica e di un rapporto costruttivo con il decisore pubblico.
Comunicazione finanziaria: non solo parole ma azioni
La risorsa-chiave, in fondo, è sempre la stessa: la fiducia. Nessun attore sociale, tanto meno nel contesto odierno, può partire dal presupposto di godere in modo incondizionato della fiducia dei propri interlocutori: così come le istituzioni e i tanto citati “corpi intermedi”, anche l’impresa è posta di fronte alla sfida di conquistare giorno per giorno i propri pubblici.
Comunicazione finanziaria: Laskin, volume importante
Proprio per questo ho trovato particolarmente interessante la riflessione che Alexander Laskin, Professore alla Quinnipiac University di Hamden, nel Connecticut, condivide con i lettori nell’introduzione al manuale di Comunicazione finanziaria e Investor relations pubblicato di recente da Wiley e da lui curato.
Gli investitori sono degli “outsider” rispetto all’azienda: vanno accompagnati
Comunicazione finanziaria: gestione delle aspettative
Il primo passo consiste nel concordare una definizione condivisa, secondo Laskin, di che cosa intendiamo con “Investor relations e Comunicazione finanziaria”. Valutati punti di forza e criticità delle definizioni più tecniche, lo studioso propone di inquadrarla come «la funzione che permette di gestire le aspettative degli interlocutori finanziari in merito alla performance presente e futura dell’azienda».
Comunicazione finanziaria: valori da far comprendere
Se volessimo inserire questo concetto all’interno della disciplina economica, le attività di comunicazione finanziaria sono un presupposto della cosiddetta “ipotesi del mercato efficiente”, secondo la quale il livello di informazione nel mercato può essere teoricamente così elevato da garantire la corretta determinazione dei prezzi. In uno scenario che si avvicina più alla realtà, gli investitori sono essenzialmente degli “outsider” rispetto alla realtà dell’azienda, che vanno accompagnati affinché comprendano appieno il valore rappresentato da una società e dal suo modello di business.
Laskin, nella sua premessa, fa una digressione storica su come è evoluta questa comunicazione nel corso della storia: negli Stati Uniti, per esempio, acquistare azioni è diventato “popolare” quando sono nati i grandi colossi del settore ferroviario e della manifattura pesante, che avevano un’esigenza continua di rafforzare i capitali.
Una novità facilitata anche dall’avvento di nuove tecnologie di comunicazione e trasporto, che accorciavano le distanze e facilitavano le negoziazioni d’affari.
Rischi sull’affidabilità
Le vendite di azioni, ricostruisce Laskin, si svilupparono allora tramite i normali canali di distribuzione (porta a porta, invio di lettere), con notevoli rischi in termini di affidabilità delle informazioni che venivano diffuse sulle aziende. Una piaga sociale, quella degli investimenti in “fake company”, che veniva denunciato all’epoca anche dalla stampa.
I venditori più scaltri venivano accusati di vendere “il cielo azzurro” ai malcapitati acquirenti e da questo derivò l’abitudine di chiamare “blue sky legislation” quell’insieme di norme che nacquero a inizio secolo per tutelare i consumatori dalle frodi.
I pionieri del dopoguerra
Il periodo in cui le attività di comunicazione rivolte agli investitori si sono davvero professionalizzate è stato però quello successivo alla Seconda guerra mondiale. Sono questi i decenni in cui gli addetti a tale area hanno iniziato a presentarsi con il titolo di “investor relations officer”. Laskin identifica però tre intervalli temporali.
Nell’era della “comunicazione”, dal 1945 al 1975, i professionisti si distinguevano per un background fortemente legato al mondo delle relazioni pubbliche. Si trattava di un periodo pioneristico per lo stesso ambito delle Pr, durante il quale competenze fortemente sviluppate nell’ambito dell’ufficio stampa venivano progressivamente impiegate per una consulenza davvero strategica.
Tra analisti finanziari e comunicatori sono nate difficoltà di linguaggio
L’era finanziaria che va dal 1975 al 2005 ha visto l’avvento dei cosiddetti “investitori istituzionali” e il boom degli investitori individuali, che nel Secondo dopoguerra passarono da 4,5 a 20 milioni negli Stati Uniti. Gli analisti finanziari iniziarono perciò a chiedere una mole sempre più importante di informazioni alle società, anche se i loro interlocutori in azienda (comunicatori) si trovavano spesso in difficoltà perché “non parlavano lo stesso linguaggio”.
Nuove richieste dall’esterno
Rivolgersi ai mass media come negli Anni 50 non era più sufficiente e i dipartimenti finanziari delle aziende si trovarono a dover scavalcare i propri colleghi nell’intensissimo rapporto con gli analisti.
Questo li metteva però a dura prova, perché a essere oggetto di richieste provenienti dall’esterno potevano essere tematiche sulle quali lo stesso top management non aveva ancora trovato una risposta (o per cui era prematuro assumere una posizione pubblica). Con un’ulteriore complicazione: chi mastica i numeri e conosce le regole di Wall Street non è necessariamente adatto a costruire e preservare il capitale reputazionale dell’azienda tout court.
L’era delle sinergie, infine, è quella che si è aperta dal 2005 in poi: ritornano sicuramente alla ribalta le competenze puramente comunicative, accompagnate però necessariamente da un solido bagaglio di conoscenze in ambito finanziario.
Una fusione di cui deve tenere conto anche il mondo universitario nella costruzione dei percorsi di formazione. Un altro dettaglio su cui riflettere: i moderni professionisti non si limitano a rappresentare la posizione del management, ma si fanno anche portatori dei feedback che raccolgono dagli investitori.
Anche l’Italia conta
Sono particolarmente orgoglioso che in questo volume ci sia anche un mio capitolo dedicato all’Italia e a un caso particolarmente rilevante per la storia della comunicazione finanziaria, quella dell’Oscar di Bilancio. Un riconoscimento che ha accompagnato l’evoluzione del modo di raccontare, per le aziende, i propri punti di forza finanziari. Un segno che anche in questo ambito il nostro Paese è un interessante laboratorio da studiare.