Le regole dell’attivismo: come si fa cambiare idea alle aziende
Le spinte dal basso possono portare a decisi cambi nella strategia aziendale contribuendo al cambiamento del ruolo dei manager e delle direttive aziendali.
di Gianluca Comin
Le manifestazioni delle Ong e dei gruppi di pressione contro banche e multinazionali sono una delle cifre caratteristiche degli ultimi decenni. Sono le grandi cause come la lotta all’inquinamento e al cambiamento climatico, le proteste contro opere infrastrutturali o le storture della finanza a innescare la mobilitazione sia della gente comune sia di coloro che appartengono ad associazioni costituite ad hoc. Le spinte dal basso possono portare a decisi cambi nella strategia aziendale contribuendo al cambiamento del ruolo dei manager e delle direttive aziendali.
Una mobilitazione che può concentrarsi in un dato contesto locale oppure espandersi gradualmente anche a livello internazionale, dando vita a veri e propri network globali. La facilità con cui le informazioni si propagano sul web e l’enorme diffusione dei social media sono stati altri due fattori scatenanti, perché hanno amplificato ulteriormente la possibilità di raggiungere pubblici diversi e di suscitare indignazione verso una determinata condotta pubblica.
In un’epoca in cui le emozioni e la rabbia sono un cocktail esplosivo in grado di condizionare l’esito delle elezioni e la formazione dei governi, l’attivismo resta una componente fondamentale del nostro contesto sociale e un elemento da tenere sempre in considerazione nelle nostre strategie di business.
LE REGOLE DELL’ATTIVISMO PERFETTO
Ma quali sono gli ingredienti alla base dell’attivismo perfetto? O meglio, quali sono le condizioni per cui una mobilitazione collettiva può avere un impatto decisivo sulle scelte di una grande azienda?
Gli effetti di un’ondata popolare di mobilitazione o di singole azioni ad alto contenuto simbolico possono essere infatti i più disparati: la decisione di fare un passo indietro e di abbandonare un progetto, le dimissioni di un top manager o addirittura dei vertici, un colpo fatale alla reputazione di un brand, una tendenza alla disaffezione da parte dei clienti.
Effetti che si ottengono con una vera e propria strategia, come dettagliato in un interessante report pubblicato di recente da 350.org. Si tratta di un’organizzazione che utilizza campagne online e attività grassroots (cioè di mobilitazione dal basso) per promuovere proteste contro progetti riguardanti carbone, gas e petrolio. Fondata nel 2008 negli Stati Uniti, deriva il proprio nome dal riferimento alla concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera che è considerata più sicura per gli esseri umani.
In un opuscolo (tradotto anche in italiano) intitolato Disinvestire dai combustibili fossili. Una guida per l’Europa gli attivisti passano in rassegna le varie campagne contro le major del settore energetico e le banche che finanziano progetti ritenuti non ecocompatibili.
AZIONI SIMBOLICHE E RISPOSTE EFFICACI
A colpirmi è stato però l’approccio suggerito a tutti coloro che vogliono impegnarsi nelle battaglie portate avanti dall’associazione: alla base di tutto ci sono azioni a forte impatto simbolico e dimostrativo, come le proteste nelle filiali di maggior prestigio delle aziende target o interventi durante le assemblee. Sono in effetti momenti estemporanei che fanno molto rumore e che, se rilanciati dalla stampa (ma anche da un anonimo passante sui social!), possono iniziare a indebolire l’immagine della nostra azienda. Si tratta però ancora di un livello di azione il cui impatto può essere tenuto sotto controllo monitorando costantemente i media e il web e garantendo una risposta rapida, efficace e condivisa da parte del soggetto attaccato.
In questa fase è il capo ufficio stampa a essere il portavoce più adatto, perché in grado di circoscrivere il fenomeno, fornire spiegazioni puntuali in merito ai progetti sotto attacco ed eventualmente controbattere con dati e informazioni verificate. Se l’onda lunga innescata dalla stampa e sul web dovesse però consolidarsi, come si augura ovviamente un’associazione che fa della protesta la propria missione, è utile prendere adeguati provvedimenti. 350.org, nella sua guida, prevede infatti che i soggetti presi di mira dalle azioni dimostrative possano iniziare a sentirsi più vulnerabili: alla crescente pressione esterna si unirà dunque una pressione interna, volta a riaprire la discussione su determinate decisioni o a mettere in dubbio la validità dei progetti approvati in precedenza.
IL COINVOLGIMENTO DI ESPERTI
Fondamentale, da una parte e dell’altra, il coinvolgimento di terze parti: esperti del settore, rappresentanti dell’accademia, persone che conoscono in profondità i contesti locali al centro di un dato progetto (come nel caso delle infrastrutture).
Se l’accusa è quella di ignorare l’impatto ambientale di un’opera, per esempio, diventa naturale richiedere il parere di uno studioso o di un osservatore per avvalorare le nostre tesi. Questo vale sia per chi è contrario, ma soprattutto per chi di un progetto è il promotore: la voce dell’azienda va affiancata a quella di altri soggetti che, in virtù del loro percorso di studi e della loro esperienza professionale, possono contribuire a fare luce su un fenomeno e ad analizzare scientificamente le sue ricadute su un dato territorio. Se l’attivismo ha le sue regole codificate, anche la strategia delle aziende che ne subiscono gli attacchi deve essere elaborata con attenzione e implementata nei tempi e nelle modalità che riteniamo più adatte.
Il rischio è quello di dover tornare sui propri passi e rinunciare alle proprie idee.