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Politica E Pubblicità: Quando I Brand Osano

Politica e pubblicità: quando i brand osano

di Gianluca Comin

La scelta di Nike di puntare sul quarterback Colin Kaepernick come testimonial è stata rischiosa. Ma alla fine ha pagato. Anche perché in linea con il motto e l’identità del marchio.

Just do it. Ci risulta difficile immaginare il logo di Nike senza l’accompagnamento di questo imperativo, incisivo e inequivocabile, che non è facile tradurre in italiano.

Si tratta senza dubbio di uno di quei casi in cui un grande brand, riconosciuto in tutto il mondo, ci spinge a guardare oltre il mero valore del bene che siamo invitati ad acquistare: lo slogan non mette infatti in evidenza alcune qualità intrinseche della scarpa o la forza della tradizione aziendale, quanto l’ispirazione che da essa può derivare.

Quell’invito a fare ciò che in quel momento avvertiamo come ineludibile e che non è codificato: dipende da noi, dalla nostra attitudine, da ciò che ci fa stare bene.

Dall’ispirazione all’impegno il passo è breve: gli strateghi del marketing non devono solo confrontarsi con una società meno materialista e disillusa dalle promesse di benessere naturalmente associate al consumo, ma soprattutto con un’opinione pubblica che tende a mobilitarsi e che pretende dalle aziende azioni concrete di responsabilità verso il contesto sociale nelle quali operano.

Come dimostra l’ultima, dibattutissima, campagna di Nike, lanciata all’inizio del campionato di football americano.

Il protagonista scelto dalla multinazionale è il quarterback Colin Kaepernick, diventato celebre per la sua scelta di inginocchiarsi per protesta durante la tradizionale esecuzione dell’inno degli Stati Uniti prima delle partite.

Un gesto provocatorio in una società intrisa di patriottismo e di culto della Nazione, soprattutto perché l’afroamericano Kaepernick lo ha promosso, presto seguito da altri atleti, come una forma di protesta contro le ingiustizie sociali e le discriminazioni che subiscono ancora i cittadini di colore.

Un tema polarizzante nell’America del presidente Donald Trump, in grado di spaccare l’opinione pubblica e di acquisire un valore tutto politico.

Come risultato del coraggioso gesto di sensibilizzazione, visto da alcuni come un’offesa per i veterani e per tutti coloro che servono il Paese, Kaepernick è rimasto senza ingaggio da parte delle squadre della Lega Nazionale di football.

Non è dunque un caso che Nike abbia scelto per il suo nuovo testimonial un imperativo ancora più profondo e totalizzante dell’ormai tradizionale Just do it: «Credi in qualcosa. Anche se significa sacrificare tutto». Non si tratta di un semplice slogan, ma di una presa di posizione in bilico tra politica e responsabilità sociale: il proprio brand, universale per natura, viene volontariamente associato all’icona di una parte della società e “schierata” contro quelle ingiustizie latenti che Kaepernick ha voluto denunciare con il suo gesto controverso.

Il lancio della campagna, all’inizio di settembre, ha come previsto infiammato gli animi. Per chi quelle divisioni sociali le nega (o le interpreta come una forzatura propagandistica per attaccare una parte politica e gli Stati Uniti in generale), la decisione di Nike è inaccettabile: dare una vetrina alla protesta di Kaepernick significa entrare a gamba tesa in un terreno, come quello politico, dove non vale la tradizionale neutralità del mercato. Tranchant, come è nel suo stile, il commento a caldo affidato a Twitter dal Presidente Trump: «A che cosa stava pensando Nike?».

​D’altronde, è stato proprio il presidente repubblicano uno dei più feroci censori delle proteste messe in atto dai giocatori di football infrangendo la sacralità dell’inno nazionale.

Come spesso accade in questi casi, l’eco mediatica e il passaparola sul web contribuiscono a ingigantire le reazioni: hashtag che invitavano a boicottare le celebri calzature sportive hanno iniziato a diventare trending topic, mentre un fantasioso sindaco della Louisiana ha provato a proibire l’utilizzo delle scarpe da parte dei circoli ricreativi organizzati nelle scuole della sua città.

È probabile che chi ha creato la campagna (e soprattutto chi l’ha approvata) abbia messo in conto reazioni negative in vari ambiti: politico, sociale e finanziario (le quotazioni di Nike hanno subito nell’immediato un calo, per poi recuperare). Ma il “rischio” ha pagato? Come possiamo misurarlo?

LA RISPOSTA DEI SONDAGGI E DELLE VENDITE

Partiamo dallo strumento più semplice: i sondaggi d’opinione.

Una rilevazione della Quinnipiac University riportata dal Washington Post sembra dare un segnale incoraggiante: i soggetti interpellati approvano la scelta di coinvolgere il controversoquarterback con una percentuale del 49% contro il 37%, anche se è la fascia d’età la vera discriminante.

Considerando le persone dai 18 ai 34 anni il sì vince con una percentuale di 67 a 21, mentre per coloro che hanno più di 65 anni prevale il no con una percentuale del 46% contro il 39. Lo stesso trend è stato confermato da un altro sondaggio commissionato dalla Cnn sulle stesse classi di età.

Se consideriamo la visibilità mediatica che la campagna ha assicurato al brand, i numeri forniti da Bloomberg hanno sicuramente fatto sorridere i responsabili marketing della società: secondo Apex Marketing Group, l’esposizione guadagnata da Nike nelle prime 24 ore di campagna ha un valore di oltre 43 milioni di dollari.

Anche il web è stato uno straordinario catalizzatore per la reputazione di Nike: mentre sui social media circolavano foto di utenti intenzionati a bruciare le calzature, le vendite online sono balzate dopo l’annuncio del 31%, secondo i dati raccolti per la Cnn dalla società Edison Trends.

I RISCHI DELL’USO DELLA POLITICA A FINI COMMERCIALI

Usare la politica a fini commerciali può essere una scelta molto costosa, non solo in termini reputazionali. Può spingere i consumatori a rigettare i nostri prodotti poiché avvertono che le loro convinzioni politiche sono state “tradite” dal brand, ma anche ad accusarci di “cinismo” per aver cavalcato una buona causa per scopi pubblicitari.

Uno degli ultimi casi è stata la scelta sfortunata di Pepsi, che ha messo la starlette Kendall Jenner al centro di una pubblicità sull’importanza della mobilitazione sociale in nome dei propri ideali.

Una presa di posizione che ha attirato sulla multinazionale accuse di ipocrisia e di banalizzazione dell’impegno politico.

Il caso di Nike appare invece frutto di un percorso coerente di costruzione del posizionamento del brand, che negli ultimi decenni si è sempre accostato ai grandi volti noti dello sport, come da ultima la tennista Serena Williams.

Il coinvolgimento di Kaepernick strizza sicuramente l’occhio ai Millennials e a quella parte della società americana che si sente rappresentata dalle battaglie contro l’Amministrazione Trump.

Allo stesso tempo però sceglie come proprio rappresentante uno sportivo controcorrente, che non ha esitato ad anteporre i propri ideali alla carriera. Un messaggio forte e un coraggio inusuale, in linea con il motto di un’azienda che da sempre ci invita a fare semplicemente ciò che riteniamo più giusto.

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