Perché gli influencer testimonial sono un’incognita
di Gianluca Comin
Se in passato si assisteva alla caccia al testimonial, oggi la “preda” più ambita di aziende e pubblicitari sono gli influencer. Cantanti, attori, presentatori, ma anche buffi miliardari o “famosi” che diventano personaggi televisivi o del mondo dello spettacolo grazie alla forza e alla stravaganza della propria personalità.
Rafforzare la reputazione di un brand (o portare alla ribalta un prodotto) è un risultato che si ottiene sfruttando in modo abile (e ormai pubblicamente riconosciuto grazie ad apposite avvertenze) i canali social dei “famosi” sotto ingaggio: una foto su Instagram o l’inserimento in una “story” di un cellulare o di un capo di abbigliamento possono decretare nel giro di pochi giorni una nuova tendenza, o comunque consolidare la percezione di un marchio come adatto alla “gente che conta”.
A pensarci bene, le dinamiche sono però le stesse di quelle che hanno sempre regolato il rapporto complesso con i testimonial scelti per grandi campagne pubblicitarie o annunci in televisione.
Conta innanzitutto la selezione di un volto, prima di una persona, che si accosti senza oscurarlo al nostro marchio, che ne incarni davvero i valori, che sia credibile come utilizzatore dei nostri prodotti.
Una brava conduttrice televisiva di programmi del daytime sarà perfetta per grandi catene o per marchi di abbigliamento alla portata di tutti, mentre le eteree dive di Hollywood vengono spesso scelte dai marchi del lusso per rappresentarne le fragranze o le collezioni più esclusive.
Gli sportivi sono sempre stati contesi tra i grandi brand per la loro carica di vitalità, per lo spirito di sacrificio che lo sport richiede, per la loro simpatia. Così come molti volti del piccolo schermo, famosi per fiction televisive o serie adatte a tutta la famiglia, sono diventati nel corso degli anni una figura familiare, da associare con naturalezza a marchi del food o a prodotti immancabili per la casa.
IL FLOP È DIETRO L’ANGOLO
Il primo rischio da non correre è proprio quello di sbagliare questa scelta delicatissima, dalla cui efficacia dipende il destino e la credibilità di una campagna di comunicazione.
È recente il caso di Pepsi, che in un goffo tentativo di strizzare l’occhio all’impegno politico dei Millennials, aveva reclutato per un’ispirata campagna, poi rivelatasi un flop, la star dei reality americani Kendall Jenner.
IL BRAND E LA TUTELA DAL RISCHIO
Un altro passaggio fondamentale, ancora più complesso, è quello di tutela dal rischio.
I testimonial scelti per un marchio, anche quelli più longevi, possono dimostrare in qualunque momento fragilità che si ripercuoteranno, in modo più o meno diretto, anche sulla brand reputation.
Pensiamo per esempio al caso di Nike, uno dei più celebri marchi di abbigliamento sportivo, che da sempre ha legato la propria immagine a quella di grandi atleti.
Negli ultimi anni il gruppo ha dovuto affrontare una serie di scandali che hanno coinvolto i suoi testimonial: dalla velocista Marion Jones al ciclista Lance Armstrong, dall’atleta paralimpico Oscar Pistorius al golfista Tiger Woods.
Solo che in quest’ultimo caso l’azienda decise di fare un’eccezione, rinunciando a stracciare il contratto e mettendo l’atleta al centro di uno spot che non ne nascondeva le debolezze, ma ne metteva piuttosto in evidenza la voglia di ricominciare. Un messaggio positivoper un mondo, come quello dello sport, fatto di cadute e risalite.
L’INCOGNITA INFLUENCER
L’arrivo degli influencer nel campo da gioco è sicuramente un fenomeno nuovo e tutto da scoprire, ma non diverge molto, in termini di regole e rischi, dalla situazione classica che abbiamo appena descritto. Lo conferma, per esempio, un articolo pubblicato dal Sole 24 Ore in questi giorni e firmato da Giampaolo Colletti.
Ad attirare l’attenzione dei media alcuni recenti flop registrati da influencer di peso sia a livello internazionale sia nel contesto italiano.
Da un lato Luka Sabbat, pirotecnica teen star statunitense del webche, a quanto riporta il quotidiano britannico Times, avrebbe platealmente disatteso un contratto da 45 mila dollari per promuovere sul suo profilo Instagram gli occhiali Spectacles. Dall’altro il rapper Fedez, seguitissimo sui social e allo stesso tempo volto televisivo, che è incappato in un vespaio di polemiche per aver organizzato un party(con conseguente spreco di cibo) nel punto vendita di una nota catena di supermercati francese.
IL VALORE DELLA NORMALITÀ
Esempi di mancato rispetto degli accordi commerciali o di esagerazioni che si rivelanoboomerang per l’azienda coinvolta. Cambiano le tendenze, ma non gli elementi di potenziale criticità.
Tanto che, osserva Colletti, a fare la differenza potrebbero essere invece i micro-influencer, a partire dai dipendenti stessi di un’azienda. Sonocommunity agguerrite, rese coese dalla comune appartenenza a un grande gruppo e sincere nella loro adesione ai valori di un marchio, perché è quello che fanno concretamente ogni giorno sul posto di lavoro.
Per questo diventa importante, oltre a investire ingenti risorse in grandi nomi, “metterci la faccia” sul serio: il giornalista cita per esempio Generali, che ha scelto i propri dipendenti come primi ambassador web delle iniziative aziendali, sia verso i colleghi sia verso l’esterno.
Il “racconto” di cosa fa (e soprattutto di cosa è) un’azienda diventa quindi molto più caldo, perché vissuto. Lo stesso principio che guida innovative campagne pubblicitarie che mettono sotto i riflettori i volti “normali” delle proprie risorse oppure strategie di comunicazione digitale che affidano alla voce di chi lavora in azienda il racconto di un progetto o di un successo ottenuto.
Perché la normalità e l’autenticità sono sempre l’elemento comunicativo più efficace.