Per essere convincenti riscopriamo il potere della nostra voce
Che il potere della voce umana sia superiore, in termini di efficacia ed empatia, a quello della parola scritta sembra fin troppo evidente. Non a caso sono i grandi discorsi di statisti e condottieri, e meno frequentemente le lettere o i libri, a passare alla storia: a volte trascurando il contenuto e tenendo vivo il ricordo solo per via delle emozioni che seppero suscitare negli ascoltatori.
Test su temi molto divisivi. C’è però uno studio interessante che una ricercatrice statunitense, Juliana Schroeder dell’Università della California, ha condotto di recente su alcuni gruppi di volontari per dimostrare la superiore capacità persuasiva della voce rispetto a un testo scritto. Un esperimento che si è guadagnato l’attenzione della redazione del Washington Post, incuriosita dalla modalità con cui è stato organizzato: la Schroeder ha infatti “costretto” 300 persone a guardare, ascoltare e leggere argomentazioni su temi molto divisivi (la guerra, l’aborto, generi musicali di nicchia come il rap e il country), testando le loro reazioni.
Quando venivano posti davanti a un interlocutore che sosteneva una tesi contraria alle loro inclinazioni, i volontari tendevano subito a prenderne le distanze e a “de-umanizzarlo”, a meno che le sue argomentazioni non venissero trasmesse in video o in una registrazione audio. In questo caso si verificava inevitabilmente una maggiore apertura verso l’altro, ferma restando la forte differenza di vedute.
“De-umanizzazione” su carta. Il culmine della “de-umanizzazione” (e dunque dell’assenza di empatia) si raggiunge trasferendo le opinioni dell’interlocutore su un pezzo di carta. Questo test è nato infatti dalla differente sensazione riscontrata da un collega della ricercatrice leggendo l’editoriale di una figura politica su un quotidiano e riascoltando casualmente le stesse parole qualche tempo dopo alla radio.
Siamo sempre più insofferenti. Nel secondo caso il politico in questione gli era sembrato molto più ragionevole, aveva ammesso il collega, nonostante le idee esposte fossero esattamente uguali a quelle descritte sul giornale. Da qui la preoccupazione della studiosa: in un mondo iper tecnologico in cui la comunicazione scritta ha preso il sopravvento (social media, chat, eccetera), il fattore de-umanizzante rischia di renderci sempre più insofferenti a posizioni politiche che non sentiamo di condividere.
Studio scientifico a parte, la consapevolezza del valore aggiunto della parola pronunciata rispetto a quella scritta può esserci di grande aiuto nella nostra professione di comunicatori. In ambito politico, il fascino esercitato da un buon oratore è un ingrediente irrinunciabile per costruire la sua carriera politica. A parte rare eccezioni (la silenziosa o monocorde Angela Merkel), i grandi leader del presente fanno un larghissimo uso della loro voce come strumento di persuasione: pensiamo al tono ispirato da predicatore sfoggiato con ineguagliata bravura da Barack Obama o allo stile appassionato con cui il giovane Emmanuel Macron ha incantato la Francia.
Voglia di incontrare la gente. Lo stesso sembra accadere ancora, nonostante l’evoluzione della comunicazione politica, nel nostro Paese: le piazze non si riempiono più come per i comizi della Prima Repubblica, ma la campagna elettorale siciliana di Nello Musumeci e del suo sfidante Giancarlo Cancelleri, così come il viaggio in treno per l’Italia del segretario del Pd Matteo Renzi, dimostrano plasticamente la voglia di incontrare e di parlare con la gente, ascoltando allo stesso tempo le istanze provenienti dagli elettori.
Obiettivo: azzerare le distanze. Forse è questa una delle novità più interessanti: chi si candida oggi lo fa anche per farsi interprete della voce popolare, per farsi megafono di ansie e paure, per affrontare con un linguaggio “di buon senso” e spesso volutamente dimesso i grandi temi che dominano la quotidianità. Non è più un rapporto unidirezionale, in cui il politico dall’oratoria aulica e quasi incomprensibile arringa la folla dall’alto di un piedistallo. È piuttosto un desiderio di annullare le distanze, di farsi trovare “in mezzo” e sullo stesso piano di coloro che si ambisce a rappresentare, quasi a rimarcare la differenza tra chi sta “nei Palazzi” e chi invece non teme di affrontare la “gente”, con le sue domande incalzanti e le dichiarazioni rabbiose. Una concezione forse diversa dell’uso della voce, ma che conferma l’efficacia di una parola che rimbalza su social network o nelle interviste sui giornali, ma che solo se pronunciata è davvero un mezzo di comunicazione con gli interlocutori.
Lo stesso si può dire nel caso della comunicazione d’impresa. Invitare i propri amministratori delegati a mettersi alla prova in un media training non è un capriccio o una mancanza di rispetto. Saper parlare in pubblico, con il proprio stile e con l’inevitabile timidezza, è infatti un asset prezioso per chi rappresenta un’azienda: nell’interlocuzione con un decisore pubblico, nello scambio spesso affrettato con i giornalisti a una conferenza stampa o durante i grandi appuntamenti annuali di presentazione del piano industriale agli azionisti.
Con la voce messaggi più caldi. In tutti questi casi l’abilità oratoria facilita il compito sia del dirigente sia del suo responsabile comunicazione. Pensiamo inoltre alla possibilità di arricchire ulteriormente la gamma di strumenti a cui si può ricorrere per raccontare l’azienda sia all’interno sia all’esterno: clip su YouTube di un discorso particolarmente azzeccato o di interviste a importanti network o quotidiani, messaggi registrati ad hoc per gli stakeholder o per raccontare, a voce e guardando il proprio pubblico negli occhi, la mission e i valori del Gruppo. In un mondo che accelera sempre più frullando in un unico mix tutto e il contrario di tutto, il potere della voce può rendere i nostri messaggi più “caldi” e condivisibili da chi li riceve.
*Twitter: @gcomin