Come comunicare una tragedia in modo responsabile
di Gianluca Comin
Nell’era dell’informazione in tempo reale, la comunicazione di un disastro naturale è spesso appiattita su un modello standardizzato e sensazionalistico, che porta a sviluppare indignazione nell’opinione pubblica e che impedisce un’analisi più approfondita della complessità che si cela dietro a un evento calamitoso.
Le emozioni del momento rischiano di travolgere qualsiasi tentativo di metterne in luce le cause scatenanti o portano, come spesso accade, ad addossare sbrigativamente le responsabilità. Quale può essere dunque la strategia di comunicazione più adatta quando una calamità naturale colpisce un territorio e la sua comunità?
A questi interrogativi cerca di rispondere un progetto ambizioso come la Carta di Rieti, un protocollo di metodi e linguaggi, ancora in fase di elaborazione, che si rivolge agli «addetti ai lavori della comunicazione» per la divulgazione responsabile delle notizie relative agli effetti di un disastro naturale. Un percorso annunciato con una conferenza stampa che si è tenuta lo scorso 7 dicembre proprio a Rieti, alla presenza dei tre autori della “call to action” rivolta alla comunità dei comunicatori italiani: Domenico Pompili, Stefano Martello e Biagio Oppi.
EVITARE LA COMUNICAZIONE DRAMMATICA
Analizzando lo stile e il linguaggio comunemente usati per descrivere situazioni di crisi ed emergenza, è possibile cogliere alcune problematicità. In primo luogo, il ricorso a un tipo di comunicazione “drammatica”: interviste, ricostruzioni e approfondimenti che fanno leva sul dolore e sull’impatto emotivo che certe testimonianze provocano nel pubblico e che non danno spazio a una trattazione più ampia dell’evento. Anche se ciò permette di catturare facilmente l’interesse degli ascoltatori, tale modalità non riesce a mantenere costante nel tempo il livello di pathos e tensione emotiva, creando un sentimento destinato a svanire in poco tempo.
In secondo luogo, è evidente la tendenza a usare un approccio prevalentemente allarmistico che monitora le prime e concitate fasi di una calamità naturale, tenendo il pubblico in un costante aggiornamento da bollettino di guerra, ma che poi si disinteressa del successivo evolversi della vicenda. Questa modalità, comprensibile dal punto di vista dell’agenda mediatica, danneggia in realtà nel lungo termine la popolazione colpita, poiché il calo dell’attenzione nei confronti di un territorio sfocia spesso in una riduzione fisiologica del supporto e degli aiuti ad esso prestati.
Fra gli elementi che contribuiscono a rendere la narrazione di un evento drammatico ancora più cupa e frammentaria, sostengono gli estensori nei documenti preparatori alla Carta di Rieti, possiamo includere anche la scelta di un linguaggio eccessivamente tecnicistico che fa ricorso a numeri, indici, statistiche non facilmente assimilabili da parte di un pubblico “distratto” e colpito emotivamente.
Una chiave di lettura più razionale, paradossalmente, può dunque essere velleitaria se la si addotta all’interno di un flusso comunicativo che insiste sull’urgenza e sul dolore. Non c’è una dicotomia tra “pancia” e “cervello”, quanto tra sbrigatività dovuta all’urgenza ed effettiva possibilità di approfondimento e spiegazione.
SERVE PROMUOVERE SOLIDARIETÀ E RESPONSABILITÀ CIVILE
Il web è sicuramente un’ulteriore cassa di risonanza, che accelera la trasmissione dei messaggi. Se da un lato permette a sempre più persone di esprimere il proprio parere e di prendere parte a un dibattito in cui si scontrano opinioni diverse, dall’altro cresce il rischio che il dibattito stesso esaurisca la spinta propulsiva senza tradursi in un’azione concreta.
È ormai una realtà il fenomeno dello slackactivism, o attivismo da poltrona, che vede sempre più persone impegnate a sostenere cause importanti sul web senza che al loro coinvolgimento virtuale corrisponda una mobilitazione concreta.
Per far fronte a queste tendenze, le linee guida della Carta di Rieti suggeriscono una metodologia che dovrebbe essere adottata dai professionisti della comunicazione, ma promuovono anche un vero e proprio ripensamento del ruolo della comunicazione.
Il suo obiettivo ultimo, secondo quella che sarà la Carta di Rieti, dovrebbe essere quello di mobilitare l’intera compagine sociale e attivare processi di solidarietà e responsabilità civile. Il primo passo nella costruzione di questa nuova narrazione parte dall’ascolto di tutti gli stakeholder dopo l’evento di crisi, cercando di comprenderne necessità e aspettative e individuando rapidamente le potenziali sinergie tra i soggetti coinvolti.
Dopo aver analizzato in maniera puntuale i fatti e le cause dell’accadimento che si sta raccontando, continuano i promotori della Carta, è necessario porre di più l’accento sulla mobilitazione e sulla resilienza che si sono create in un dato territorio.
Saranno queste, infatti, il “carburante” che darà modo di discutere di prevenzione piuttosto che di negligenza e di rinnovata partecipazione civile anziché di sconforto. Compito della comunicazione (e dei comunicatori) è quello di mettere a nudo le cause e raccontare la realtà, con le sue luci e le sue ombre. Questa funzione ha però un durevole effetto positivo per la collettività quando riesce nell’intento di mettere in evidenza processi virtuosi e di porre le basi, senza rinunciare al dovere di cronaca, di un’autentica rinascita di contesti messi in ginocchio da una tragedia.