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Il Museo Usa Diventa Social, Ma L’Italia è In Ritardo

Il museo Usa diventa social, ma l’Italia è in ritardo

So Many Stories to Tell for Met’s Digital Chief è il titolo di un’interessante intervista del New York Times a Sree Sreenivasan, professore di giornalismo digitale e new media alla Columbia University dal 1993, quando ancora i social network non esistevano e internet iniziava giusto a fare le prove generali per rivoluzionare il mondo.

Mr. Sreenivasan può essere considerato un pionere dello storytelling applicato ai social media e alla campagne di advocacy online.

PIONIERE NELLE BELLE ARTI. Dopo aver insegnato a un’intera generazione di giornalisti alla Graduate School of Journalism della Columbia come la tecnologia stava cambiando il giornalismo e come i professionisti del mestiere dovessero agire di conseguenza, ad agosto è diventato il primo Chief digital officer del Metropolitan Museum of Art, e a ben guardare, forse il primo Cdo nel panorama museale del mondo.

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Può suonare strano vedere un profilo del calibro di Sree al servizio delle belle arti, con una funzione che attualmente poche aziende dello stesso panorama consumer hanno tra gli executive aziendali.

Eppure oggi nel mondo l’attenzione verso l’arte figurativa è in grande crescita, toccando trasversalmente culture e contesti di provenienza completamente differenti.

UN TEAM DI OLTRE 70 PERSONE. Proprio per questo, il giovane professore di origini indiane non va a coprire un incarico rappresentativo come un guru di cui farsi belli per dare un’aria di innovazione alla gestione del Met.

Sreenivasan va a guidare un ufficio digital composto da oltre 70 persone, con varie competenze e funzioni. Un team che lavora a stretto contatto con il Chief technology officer e il Chief information officer.

«Il futuro di qualsiasi business è lo storytelling»

Alla domanda sul perché un giornalista dovrebbe essere a capo della funzione digital communication del museo più importante degli Stati Uniti, che racchiude oltre 2000 anni di storia, Sree risponde molto sinceramente che nonostante lui sia un grande appassionato di arte, non è di certo un esperto sul tema, «ma amo profondamente lo storytelling, e credo che il futuro di qualsiasi business sia lo storytelling». Un’affermazione che colpisce, ma non dovrebbe stupire gli addetti ai lavori della comunicazione e del marketing.

LA COCA COLA COME OBAMA. La capacità di raccontare e raccontarsi in quanto azienda, organizzazione o individuo è al centro dello sviluppo delle strategie di business di numerosissimi player a livello mondiale, a prescindere dal settore o mercato di appartenenza.

La Coca-Cola, tanto quanto Barack Obama durante una campagna presidenziale, per essere acquistata deve riuscire a raccontare una storia che sia credibile.

Viviamo infatti in un periodo dove per stare sul mercato non basta più vendere «un prodotto». Oggi è necessario andare oltre e intervenire su proprietà che superano quelle materiali fino ad arrivare alle corde emozionali.

slide_344213_3583950_freeGLI UFFIZI SOLO AL 21 POSTO. Se diamo un occhio ai numeri, il Met è il secondo Museo più visitato al mondo con oltre 6 milioni di visitatori l’anno, dopo il Louvre che con 9 milioni 720 mila visitatori è solo al comando e sembra difficilmente spodestabile.

Dalla terza alla quinta posizione ci sono il British Museum, la Tate Modern e il National Museum, per un trio di musei britannici con quasi 16 milioni di visitatori complessivi ogni anno.
Se non teniamo conto dei Musei Vaticani, terzi con quasi 6 milioni di visitatori annui, il primo museo nostrano in ordine di classifica è la Galleria degli Uffizi, al 21esimo posto, con 1 milione 769 mila  visitatori.

Un buon risultato considerata la grandezza e l’affluenza delle città con cui deve competere.

La differenza tra noi e gli altri la fanno Facebook e Twitter

Ma i numeri diventano impietosi se si confronta la presenza online dei musei stranieri rispetto a quelli italiani.

Il Metropolitan utilizza in maniera integrata quasi tutti i social media più famosi, con una strategia di comunicazione che si dipana tra Twitter (900 mila follower), YouTube, (16 milioni di views), Facebook (1,2 milioni di fan), Pinterest e Instagram.

I francesi invece, con gli account del Louvre, hanno rispettivamente 297 mila follower su Twitter e 1 milione e 630 mila like su Facebook.

GAP SOCIAL ENORME. I nostri cari Uffizi invece non hanno neanche un account Twitter e Facebook ufficiali, ma si appoggiano al più omnicomprensivo Polo Museale di Firenze.
Poco male se questo portasse a una massa critica significativa, ma così non è.

Gli account social del Polo (pochi, considerando che non hanno un canale YouTube né Instagram) si attestano a 4.590 follower e quasi 10 mila like su Facebook (9.506 per l’esattezza).
Palazzo Ducale, al 36esimo posto tra i musei più visitati al mondo, con 1 milione e 323 mila spettatori, sfrutta anch’esso l’account “cappello” dei Musei di Venezia, con soli 7.185 follower e 1.661 tweets.

Un gap “social” che può essere spiegato solo in parte con il digital divide tra Italia e gli altri Paesi dell’economie avanzate.

MANCA UNA STRATEGIA. Quello che manca è una strategia di lungo periodo che guardi ai social media come strumenti che possono amplificare il pubblico di riferimento di un polo museale, ma soprattutto che invoglino chi ancora non c’è stato, a prenotare un biglietto e fare un viaggio in quella determinata città per vedere proprio quel museo, attirati dalle opere custodite.

IL MART DOES IT BETTER. Un esempio italiano che va controcorrente e socialmente virtuoso è il Museo di Arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto.

Il Mart infatti sfrutta quasi tutti i social presenti sulla scena tra cui Facebook (65.895 like), Twitter (24 mila follower), Linkedin (1.381 follower), Pinterest, Google+, Instagram e Youtube.
Si potrebbe fare qualcosa non su un solo progetto, ma sul totale del patrimonio italiano, con il ministero dei Beni e delle attività culturali (Mibac).

COSA FARE? USARE L’INGLESE. Un piccolo suggerimento? Oggi i musei twittano e producono contenuti solo in italiano, quando l’interesse per l’arte italiana è mondiale.

Comunicare il Paese più ammirato al mondo in inglese sui social media, potrebbe essere un piccolo passo con cui riaffermare l’arte in Italia a livello internazionale: non vedere il nostro Paese primeggiare in quest’ambito risulta alquanto strano. Al pari di vedere il massimo esperto di digital media al mondo al servizio del Met.

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