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Israele E La Strada Di Abramo: Una Presenza Attiva Nell’Africa Mediterranea

Israele e la strada di Abramo: una presenza attiva nell’Africa mediterranea

di Davide Assael

Gli Accordi di Abramo, seguiti alla dichiarazione congiunta fra Israele, Emirati Arabi Uniti e Stati Uniti siglata il 13 agosto 2020, con cui lo Stato ebraico ripristina relazioni diplomatiche con Emirati  Arabi e Bahrein e che hanno recentemente ricevuto più di un’apertura dalla stessa Arabia Saudita, hanno certamente il proprio collante nel tentativo di costruire un’asse contro il nemico comune Iran, ma a un occhio più attento appaiono come la tappa conclusiva di un mutamento della politica estera dei Paesi dell’area mediorientale e nordafricana seguito alla fine della Guerra fredda. Cambiamento che ha seguito due direttrici: la necessità di costruire buone relazioni con l’ultimo attore globale rimasto, gli Stati Uniti d’America, e l’oggettivo riscontro di interessi comuni che, man mano che è aumentata la distanza dal “trauma” del ’48, sono sempre più emersi. Se osservata da qui, l’intesa raggiunta nel 2020 estende la propria capacità di azione su una vasta area di Paesi arabi e musulmani, offrendo, in particolar modo, nuove opportunità al Nord Africa.

Il Marocco è stato il primo e finora unico Paese dell’area a aver sottoscritto gli accordi anticipati da Emirati Arabi e Bahrein, con la firma dell’allora ministro degli esteri israeliano Benny Gantz e dell’omologo marocchino Nasser Bourita. Già dal 1993 i due Paesi avevano, però, riallacciato relazioni diplomatiche attraverso uffici di rappresentanza a Rabat e Tel Aviv. Avvicinamento rientrato a seguito della seconda intifada palestinese del 2000, ma ora ripreso anche in virtù delle aperture statunitensi nei confronti del dossier Sahara occidentale. Numerosi i settori in cui i due Paesi possono cooperare. Gli accordi del 2020 comprendono nuovi patti sui settori aereo – riaperti i collegamenti fra i due Stati – digitale, agroalimentare, automobilistico, aeronautico, farmaceutico e energie rinnovabili. Tutte aree in cui i due Paesi hanno investito molto in questi ultimi anni e in cui potranno scambiarsi expertise specifiche. 

Lo spostamento marocchino verso Israele è stato aspramente criticato da Algeri, che fra le capitali dell’area si è dimostrata la più reticente a accettare aperture di qualsiasi tipo verso l’entità sionista, restando legata alla tradizionale postura nazionalista araba, in cui la causa palestinese è stata spesso assunta come strumento di acquisizione del consenso. Una via alternativa era stata tentata agli inizi del proprio ventennale mandato dal presidente Abdelaziz Bouteflika, che ha spesso ricordato il lungo passato di convivenza fra popolazione ebraica e musulmana, a dire il vero assai problematizzato dalle ricerche più recenti che hanno certificato il ruolo di subordinazione riservato agli ebrei sia nell’Algeria ottomana sia durante l’occupazione francese, dove la minoranza ebraica si trovò fra i due fuochi dell’esercito di Vichy e la risposta nazionalista araba. Bouteflika si dimette nel 2019 dopo accese proteste popolari e il successore Abdelmadjid Tebboune, già Primo ministro del Paese nel 2017, rispolvera l’antico antisionismo. Se la scelta può essere stata proficua per il consenso interno, si è dimostrata perdente sul piano internazionale, isolando l’Algeria sulla questione del Sahara occidentale con Emirati Arabi Uniti e Stati Uniti che si sono orientati in direzione marocchina.

Fra i Paesi islamici nordafricani, l’Egitto è l’unico a aver riconosciuto Israele già nel 1979, a seguito degli accordi di Camp David. Rapporto sopravvissuto ai diversi, e traumatici, cambi di regime al Cairo, dall’omicidio di Sadat nel 1981 proprio durante una cerimonia di commemorazione della pace del ’79, alle rivolte del 2011 che hanno portato al potere l’esponente della Fratellanza musulmana Mohammed Morsi, fino alla sua capitolazione a favore di Abdel Fattah al-Sisi, con cui i militari riprendono il controllo del Paese. Numerosi i dossier di collaborazione fra lo Stato ebraico e il Paese che fu dei faraoni. In primis il settore energetico, ulteriormente cementato grazie alla collaborazione per lo sfruttamento degli idrocarburi nel Mediterraneo orientale e la formazione di un hub che oggi si propone di offrire all’Europa alternative al gas russo. Inoltre, dal gennaio 2020 Israele esporta gas verso l’Egitto attraverso il consorzio israelo-statunitense di Noble e Delek, le società incaricate dello sviluppo dei giacimenti Leviathan e Tamar scoperti nel 2010. Nel febbraio 2021, a seguito di un incontro fra i due ministri dell’Energia Yuval Steinitz e Tarek el-Molla, è stato stipulato un ulteriore accordo che prevede la costruzione di un gasdotto sottomarino che trasporti gas da Leviathan verso gli impianti di liquefazione del gas sulla costa egiziana. Un asse commerciale che crea anche un fronte antiturco basato su interessi comuni. In secondo luogo, i due Paesi collaborano sul versante sicurezza in nome del contenimento dei gruppi jihadisti nel Sinai e a Gaza, dove il Cairo è anche il principale mediatore fra Hamas e il governo israeliano. In ultimo c’è il settore turistico, con l’Egitto messo in ginocchio dalla crisi Covid e attratto dall’opportunità dei flussi dallo Stato ebraico. Anche in quest’ottica va visto il piano di valorizzazione della millenaria presenza ebraica nel Paese tramite un imponente piano di restauri, un modo per avvicinare anche l’influente comunità ebraica statunitense.

Fra i diversi Stati nordafricani, la Tunisia è forse quello che ha più mantenuto una posizione di terzietà rispetto alle relazioni con Israele, stretto fra l’incudine di un antisionismo che ancora miete consenso fra la popolazione e le cicliche aperture dei vari governi nei confronti dello Stato ebraico. Non è superfluo ricordare che, primo fra i leader arabi, l’ex Presidente Bourghiba, in un celebre discorso in un campo profughi palestinese a Gerico datato 1965, aprì a accordi con Israele per risolvere la vexata quaestio palestinese, sancendo il prevalere di un approccio pragmatico alternativo al panarabismo di cui si nutrivano tutti gli attori dell’area. Lo spostamento verso il realismo politico non prevalse mai definitivamente, scontrandosi con i ciclici conflitti fra israeliani e palestinesi – con la punta delle due intifade del 1987 e del 2000 – e fra Israele e Paesi arabi – vedasi conflitto in Libano del 1982 che portò i vertici palestinesi a ritirarsi a Tunisi. Così anche durante il governo di Ben-Alì e dopo le rivolte del 2011. Una posizione ambigua che non pare abbia aiutato il Paese, costringendolo a entrare in rotta col proprio partner turco. Una differenza col Sudan, che ricalcando una stessa storia fatta di aperture e rotture diplomatiche, ha rotto gli indugi candidandosi a prossimo firmatario degli Accordi di Abramo. Il ché assicura al Paese vicinanza con gli USA e collaborazione nei settori strategici di sicurezza e difesa. 

Infine, uno sguardo allo scenario libico, dove Gerusalemme appoggia fortemente il governo della Cirenaica di Haftar, soprattutto perché funzionale alla strategia energetica del Paese.

Insomma, le relazioni arabo-israeliane sono uno dei campi più dinamici della geopolitica mondiale con conseguenze specifiche sul Nord Africa. Quali sono gli ostacoli al procedere di questo avvicinamento reciproco? Le sintetizziamo in tre punti:

  1. La componente antigiudaica presente in ogni Paese arabo, ancora usata come strumento di acquisizione del consenso.
  2. L’instabilità interna ai Paesi nordafricani – Sudan e Libia insegnano.
  3. L’attuale instabilità israeliana che, dall’insediarsi del sesto governo Netanyahu a fine dicembre 2022, rischia di ripiegarsi su un conflitto interno allontanando le nuove opportunità strategiche. 

Davide Assael è Presidente dell’Associazione Lech Lechà e ha svolto attività di ricerca per importanti fondazioni italiane. È collaboratore della rivista Limes e per anni è stato una delle voci della trasmissione di RadioRai3 Uomini e profeti.

 

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