I nuovi paradigmi del vivere: abitare l’emozione
di Domizia Mandolesi
Non più rifugio notturno dopo una giornata frenetica passata fuori, ma luogo frequentato 24 ore su 24, non più spazio dedicato alla sola funzione domestica, quanto stazione multiuso per le attività molteplici dei suoi abitanti: la casa, a causa della pandemia, è tornata al centro delle nostre vite, scardinando dinamiche e comportamenti consolidati e sollecitando una serie di interrogativi, oggetto di un pensiero critico che interessa oltre a sociologici, antropologi, psicologici, anche coloro che si occupano di progettarne gli spazi. Nella maggior parte dei contesti, soprattutto quelli europei, da qualche anno a questa parte, il tema dell’abitazione e delle sue capacità di fare città è oggetto di una nuova domanda e motore principale delle politiche urbane. Ripartire, oggi, dal tema dell’abitazione e delle sue molteplici forme insediative per rispondere a usi, culture e modi di vita diversificati come quelli presenti nella società attuale può infatti costituire un’opportunità per ridare senso a quel mosaico di pezzi eterogenei, spesso senza relazioni, di cui si compongono le città. All’interno di un contesto metropolitano dispersivo e atopico, in qualche modo straniante, gli insediamenti residenziali possono porsi come luoghi di riferimento per coltivare gli aspetti positivi della vita comunitaria e della condivisione rafforzando il senso di appartenenza.
Incentrati sull’abitazione e le sue forme di aggregazione in una nuova concezione urbana, i temi di ricerca sulla casa si muovono su un binario parallelo: quello che indaga il carattere privato dello spazio per modificarlo ed adeguarlo a quegli usi molteplici e diversificati che si sono recentemente manifestati oltre la specifica funzione domestica; quello che, considerandone gli aspetti relazionali e sociali in una dimensione collettiva, si riferisce alla casa come elemento generatore di una forma urbana. La casa, non più vista come existenzminimum, diviene espressione di una sfera emozionale che individua nell’abitante il soggetto attivo dello spazio domestico. Passare dall’ossessione per la tipizzazione e la produzione in serie dell’alloggio, questione centrale posta dalla modernità oggi ancora irrisolta, alla soggettività dell’espressione formale significa pensare allo spazio domestico non più come a una “macchina per abitare”, ma come a uno spazio in cui vivere le proprie emozioni. Sul piano progettuale questo vuol dire superare la standardizzazione a favore di una flessibilità che va dai singoli componenti alla scala dell’alloggio e pensare all’abitante come soggetto attivo nello spazio. Se, quindi, la struttura della casa non più rigida, si adatta al mutare delle esigenze dei suoi abitanti nello spazio e nel tempo, e i confini tra interno ed esterno si modificano portando a considerare la questione degli spazi di transizione dal privato al pubblico, dalla dimensione individuale dell’alloggio a quella collettiva degli ambienti comuni. I vuoti, gli spazi aperti tra le case diventano gli elementi di mediazione tra architettura e città, quelli a cui sono affidati la qualità e il carattere della struttura insediativa dai quali dipende la capacità da parte degli abitanti di appropriarsi degli spazi in cui vivono quotidianamente.
«Bisogna dare agli spazi pubblici una forma tale che le comunità locali si sentano personalmente responsabili di essi – afferma Herman Hertzberger –. In questo modo ogni membro della comunità contribuirà in prima persona all’ambiente con il quale è in relazione e nel quale si identifica».
Gli spazi aperti tra le case (dalla strada al percorso pedonale, dallo spazio all’aperto privato al giardino condominiale, dai luoghi di incontro alla piazza pubblica), la configurazione che essi possono assumere in rapporto agli usi e alla conformazione dell’edificato determinano i caratteri della morfologia urbana. La porosità, l’articolazione volumetrica e l’ibridazione tipologica costituiscono i comuni denominatori e la misura in termini qualitativi degli esiti progettuali tanto alla scala dei piccoli che dei grandi interventi. Si pensi, ad esempio, all’intervento più radicale e quasi provocatorio del complesso residenziale a Singapore di OMA, una megastruttura di semicorti poligonali adatta a una megalopoli di 7 milioni di abitanti, generata dal montaggio su più livelli di unità abitative indipendenti, che guadagnano aria, luce e visuali sul paesaggio proprio dalla complessa sequenza di “spazi tra”, oppure ai complessi residenziali più tradizionali di case basse come quelli progettati da Peter Barber in due quartieri ad alta densità di Londra. L’obiettivo alla base dei due interventi londinesi è definire un habitat di qualità a partire dal lavoro sugli spazi interstiziali come luoghi comunitari e da una tipologia ibrida, formata da abitazioni di varie misure, spazi lavoro, negozi. Sulla stessa linea di ricerca, ma con soluzioni diverse si muovono anche le sperimentazioni di MVRDV, a partire dalla composizione di un numero variamente assortito di tipologie abitative, intervallate da spazi aperti privati, semi privati e pubblici, sono in grado di produrre volumi molto compatti e dalle forme variabili, da collocare in tessuti metropolitani densamente costruiti come nuovi margini o landmark.
Anche Steven Holl lavora sulla porosità del volume, sulle soglie tra ambiti differenziati e sulla interscalarità degli spazi, dalla dimensione più intima e privata dell’alloggio a quella condivisa degli spazi comuni. Nel complesso di abitazioni a Fukuoka, un progetto dei primi anni Novanta, Holl affronta in chiave sperimentale sia l’organizzazione dello spazio interno alla singola casa, liberandolo in modo intelligente dalla rigida suddivisione in stanze, sia il problema della caratterizzazione dei percorsi di distribuzione alle abitazioni, risolto con interessanti variazioni e slittamenti in rapporto ai tipi e ai sistemi di aggregazione degli alloggi. Nella residenza per studenti Simmons Hall a Cambridge, Massachusetts, il tema delle relazioni e dei passaggi graduali tra dimensione individuale e collettiva si traduce in un’invenzione di particolare suggestione: l’introduzione di una sequenza di spazi cavi, destinati ai servizi comuni e disposti in modo irregolare che, attraversando più piani, va a scardinare il sistema seriale delle stanze per gli studenti che generalmente connota questo tipo di edifici. Questo sistema articolato si ricompone, attraverso una griglia modulare quadrata, nel volume esterno dell’edificio pensato come grande segno a scala urbana. L’articolazione degli spazi all’aperto, anello di congiunzione tra edificio e città, determina la dimensione urbana della residenza, introducendo un altro tema di ricerca centrale per la contemporaneità: quello della strada come elemento strutturante il quartiere e il tessuto urbano, dotato di identità e qualità spaziali proprie. Oggi, molti progetti ripartono proprio dal significato della strada e dalla sua conformazione come struttura multitasking, non più solo canale funzionale per il traffico veicolare, ma luogo vitale destinato all’incontro e alla vita sociale, elemento decisivo per la costruzione del senso di comunità.
Domizia Mandolesi è Professore associato di progettazione architettonica e urbana presso la Facoltà di Architettura della Sapienza Università di Roma, Direttore della rivista bimestrale di architettura “L’industria delle costruzioni”, è autrice di numerosi saggi, articoli e volumi monografici. Svolge attività di ricerca nell’ambito di HousingLab, di cui è responsabile scientifico e coordinatrice, occupandosi delle questioni legate al progetto della residenza nelle complesse relazioni interscalari che vanno dall’alloggio all’edificio, dal quartiere alla città.