Comprendere il Male
di intervista a Stefano Nazzi a cura di Elisa Russo
Narcisismo, rabbia e risentimento, traumi e abusi. A volte questi elementi sfociano in crimini efferati, esito di meccanismi psicologici e sociali complessi e del lato più oscuro dell’animo umano. Ne abbiamo parlato con Stefano Nazzi, giornalista e autore di “Indagini”, uno dei podcast più seguiti in Italia, nonché del libro “Il volto del male”.
Quali sono le fragilità e insicurezze che innescano la violenza?
Molte volte la violenza è accompagnata da una componente narcisistica, dall’idea di essere – con i propri desideri e la propria persona – al centro dell’universo. Le persone che commettono atti di violenza credono spesso che la vita altrui conti pochissimo – a volte nulla – e che distruggerla non abbia alcun valore: fondamentalmente non nutrono alcuna empatia nei confronti degli altri. È un tratto della personalità che può nascere da torti o da umiliazioni che pensano di aver subito, e quindi da un desiderio di rivalsa. Anche se ogni storia è diversa, la componente narcisistica è spesso presente.
È possibile prevenire le insicurezze prima che si trasformino in crimini?
L’ambiente in cui si cresce e si vive è determinante nella formazione, e anche nell’attitudine, a certe forme di violenza. Se si cresce respirando violenza e prevaricazione, ci si abitua a quel modo di rapportarsi anche con altri. Abbiamo anche tanti esempi di come manchi spesso la prevenzione, soprattutto nel caso di persone che soffrono di disturbi psicologici o psichiatrici. Spesso, anche laddove sono presenti dei segni premonitori, per vecchi tabù non si riesce a intervenire in tempo e a prevenire l’esplodere della violenza.
Qual è il contributo dei social media in questo contesto?
Dare la colpa ai social media è semplicistico e sbagliato, anche se certamente contribuiscono a un’amplificazione di tutto, come dimostra l’attenzione anche del giornalismo più istituzionale rispetto a ciò che avviene online. Faccio un esempio: quando il cantante Rovazzi ha pubblicato un video in cui simula il furto del proprio telefonino per una strategia promozionale, dopo due ore su tutti i siti di informazione – anche quelli più seri – la notizia è stata riportata e di conseguenza amplificata. Si è parlato di insicurezza nelle città, dove tutto può avvenire ed è fuori controllo, ma nessuno ha avuto l’accuratezza di verificare l’accaduto. Tutto viene rilanciato e riproposto in maniera quasi ossessiva, con un’attenzione spasmodica rivolta verso alcuni personaggi che hanno più seguito sui social media.
Quali sono i segnali premonitori da cercare e riconoscere per “prevenire” l’avvenire di storie di cronaca nera?
L’isolamento amplifica e accresce qualsiasi forma di disagio, più ci si sente soli e abbandonati, maggiore è il risentimento che si tende a nutrire. Lo stigma non fa altro che accrescere traumi che esistono già. Spesso le storie di violenza nascono da frustrazioni “banali”. Il più famoso serial killer italiano, Donato Bilancia, raccontò durante gli interrogatori che per tutta la vita l’aveva accompagnato il trauma del padre, che lo costringeva a spogliarsi davanti alle vicine per prenderlo in giro.
In lui è cresciuto un sentimento di vergogna e di rabbia, rivolta verso tutto ciò che era a lui esterno. Ogni persona che incontrava era potenzialmente qualcuno che lo avrebbe umiliato e preso in giro. A volte anche episodi che possono sembrare insignificanti, non lo sono. Di insignificante nella vita non c’è mai nulla.
Quale ruolo giocano i media nell’alimentare sentimenti di insicurezza?
I media hanno un ruolo fondamentale: il loro racconto orienta l’opinione pubblica e influenza la “giustizia attesa”, ovvero l’esito che ci sia aspetta abbiano indagini e processi rispetto alla narrazione che viene proposta. Questo è un problema, perché spesso c’è un solco tra quella che è la giustizia attesa e quella che è la giustizia reale. C’è poi anche un’altra componente. Il caso di Erika e Omar, ad esempio, è diventato da una parte un racconto terribile e orribile, dall’altra un racconto vivisezionato, orientato al sensazionalismo, con l’impiego di termini come “fidanzatini diabolici”. Ricordo dibattiti televisivi sul perché il padre di Erika De Nardo non avesse abbandonato la figlia, che pur aveva ucciso la madre e il fratello. Ci furono condanne, un ergersi a giudici di una situazione che è impossibile da capire, perché se non si è in mezzo a quella vicenda non si può capire cosa possa provare un padre, un marito, quali emozioni guidino le sue scelte. Ci sono dinamiche in cui, per rispetto, si dovrebbe dire semplicemente “questa cosa non possiamo giudicarla” perché non è pensabile mettersi nei panni di questa persona.
Perché la cronaca nera appassiona così tanto?
Da una parte cerchiamo di capire le cose che non capiamo, perché sono quelle che ci spaventano di più. Contestualizzare ci aiuta a renderle più chiare e ci rassicura perché ci induce a dire: “noi siamo altro, quella cosa non ci riguarda”. Questi aspetti più feroci e violenti dell’animo umano ci fanno sentire diversi, forse migliori, anche se nascono in fondo da piccole debolezze che tutti hanno: gelosie, antipatie, desideri di rivalsa, che nella stragrande maggioranza degli esseri umani restano quello che sono.
L’interessarsi alla cronaca nera ci porta a dire: “Ma quelli sono mostri, sono altro da noi”, ma in realtà le persone che fanno male ad altri non sono mostri, sono esseri umani che vivono nelle nostre comunità.
Un serial killer americano, Ted Bundy, durante il processo ha detto una frase molto significativa: “ci chiamate mostri ma siamo i vostri mariti, i vostri figli”.
Ti aspettavi che il podcast Indagini avesse tanto successo?
Eravamo convinti di aver fatto un buon lavoro, ma non ci aspettavamo tutto questo successo. Il podcast nasce dalla volontà di raccontare la cronaca, considerata argomento giornalistico di serie B perché negli ultimi anni è stata spesso raccontata con l’obiettivo di fare spettacolo. Ci siamo detti: forse c’è un altro modo di raccontarla.
Volevamo che fosse spiegata anche da esperti, in modo da capire da cosa sono scatenate queste storie, perché sono convinto che questi episodi non nascano mai all’improvviso, dal niente.
Ogni storia ha sempre un percorso che, a un certo punto, deflagra.
Stefano Nazzi è giornalista de “Il Post”, ha lavorato per importanti testate nazionali. Si è occupato di cronaca, seguendo i casi più conosciuti e di maggiore risonanza, ma anche vicende meno note. È ideatore e autore di Indagini, ai primi posti delle classifiche dei podcast, e di Altre indagini, realizzato sempre per “Il Post”. È autore de Il volto del male (2023) e Kronaka. Viaggio nel cuore oscuro del nord (2023).
Immagine: © Stella Laurenzi