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“Il Silenzio è Violenza”: I Brand Rispondono Alla Complessità Moderna

“Il Silenzio è violenza”: i brand rispondono alla complessità moderna

di Gianluca Comin

Stiamo vivendo un momento storico molto particolare. Non solo siamo stati immersi in una pandemia che ci ha costretti in casa diversi mesi, ma oggi le immagini delle televisioni riportano scene di violenza inaudite a cui segue in tempo reale l’eco dei social che, attraverso martellanti post indignati, ritraggono scenari raccapriccianti che delineano un’era molto delicata. Dinnanzi ai recenti episodi americani, all’evoluzione della comunicazione e al sempre crescente ruolo dei social media, negli ultimi anni si è assistito alla convergenza tra grandi brand e attivismo. Come ben spiegato da un recente articolo del Financial Times, questo è, in parte, il risultato del cambiamento dei modelli di comunicazione.

Dopo l’avvento dei social media, brand e marchi hanno imparato a coinvolgerci attraverso gli stessi canali utilizzati dai nostri parenti e amici, plasmando così la loro comunicazione aziendale. Avvicinandosi all’informalità e l’immediatezza di queste piattaforme, molti marchi hanno adottato il linguaggio di una persona reale – un confidente, un amico. Questo cambiamento di registro e questo nuovo modo di comunicare ha avuto un impatto positivo sui brand che sono così riusciti ad aumentare l’engagement con il proprio pubblico di riferimento.

Nel 2018, uno studio di Edelman Earned Brand ha rilevato che il 64% dei consumatori compra o boicotta un marchio solo a causa della sua posizione su una questione sociale o politica. Ora più che mai, anche alla luce delle crescenti e recenti proteste contro gli atti di violenza che dilagano nel mondo, è importante, se non necessario, per i brand prendere una posizione per cercare di mantenere inalterato il rapporto con il proprio pubblico di riferimento. Basti pensare che, un marchio tanto famoso quanto vituperato come Nike, è stato eletto marketer più influente del 2018. Eppure, all’incirca vent’anni fa, nel periodo più attivo del movimento no global, Nike è stata oggetto di critiche e al centro delle polemiche relative allo sfruttamento di manodopera infantile da parte di alcune aziende a cui aveva dato l’appalto in Cambogia.

Dopo gli scandali, Nike ha iniziato a impegnarsi per creare una comunicazione basata su valori ben definiti, aiutando così l’azienda a posizionarsi sul mercato garantendo un cospicuo incremento delle vendite. Un esempio è la campagna del 2018, come riportato nel sopracitato articolo del Financial Times, condotta dall’ex giocatore della NFL e attivista per i diritti dei neri, Colin Kaepernick, con lo slogan “Credi in qualcosa, anche se significa sacrificare tutto”, che ha determinato, un incremento delle vendite di Nike del 31% nella settimana immediatamente successiva alla sua uscita, nonostante le critiche di alcuni punti vendita conservatori.

Cosa ci insegna, dunque, il caso Nike? Che non c’è scampo neanche per i brand: nella complessità della modernità è necessario prendere una posizione. Non basta fare prodotti eccellenti e comunicazioni d’impatto per essere il brand più rilevante dell’anno: è necessario prendere una posizione netta su temi delicati d’attualità. Solo così l’azienda potrà essere considerata affidabile e solida sul mercato e attrarre a sé il maggior numero di clienti, ampliando il proprio pubblico di riferimento. Si tratta di un’enorme inversione di tendenza rispetto al passato, quando i marchi si impegnavano per una cosa: la neutralità. Nell’epoca del cosiddetto societing – concetto analizzato nel dettaglio dal sociologo Giampaolo Fabris – è necessario quindi inserirsi in un dibattito e prendere una posizione netta assumendosi delle responsabilità.

Certo, non basta prendere una posizione per alzare il numero delle vendite. Il pubblico è attento e intransigente e il beneficio arriva se le dichiarazioni vengono sostenute da azioni concrete. Un quadrato nero su Instagram non basta, i consumatori sostengono chi si impegna nel concreto per il sociale o per cause ben definite. Non è un caso, dunque, che la maggior parte degli elogi sono andati ai marchi che mettono mano ai loro soldi e portafogli. Come spiega sempre il Financial Times, Glossier ha annunciato che avrebbe donato 1 milione di dollari alle cause della resistenza nera e ai marchi di bellezza di proprietà dei neri. Rihanna ha messo in pausa le vendite dei suoi marchi Fenty per tutto il martedì, con le loro homepage che mostrano una lista di organizzazioni a cui donare. Questi sono casi di successo: credibili e concreti. Equità, risorse e visibilità rappresentano una triangolazione molto delicata che deve essere costruita con coscienza: passare da una causa all’altra senza criterio non aiuterà certamente i brand a valorizzare la loro mission e la loro reputazione, è necessario perseguire un obiettivo con costanza e caparbietà.

In conclusione, se è vero che sposare una causa sia importante per la reputazione di un’azienda e per incrementare il dialogo con il proprio pubblico, ora è ancor più necessario adottare una visione strategica ben definita: sposare cause senza senso per il proprio brand non porterà da nessuna parte. Se le aziende iniziano a parlare sui social ai propri clienti con toni amichevoli e informali, verranno percepite come familiari o amici e, si sa, con gli amici e i familiari lo scambio di opinioni e visioni e lo scontro sono spesso inevitabili.

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