Trump? Più di Hillary tema Zuckerberg
La copertura riservata alle elezioni presidenziali degli Stati Uniti da parte dei media internazionali e nazionali è, anche quest’anno, significativa.
Dall’avvio della campagna elettorale si susseguono in molti Paesi numerosi speciali dedicati alle tappe del percorso e approfondimenti relativi ai candidati e alle loro quotidiane scaramucce.
In occasione di ogni dibattito la mia timeline su Twitter viene letteralmente invasa dai sagaci commenti di giornalisti e appassionati, che si divertono a irridere i tic e le debolezze dei vari Sanders, Clinton, Cruz, Trump.
Un entusiasmo senza eguali. Ha molto stupito la decisione di un noto anchorman italiano di mettere in piedi la leggendaria maratona televisiva per seguire in diretta la comunicazione dei risultati. A un utente su Facebook che irrideva la pretesa di essere seguito fino a notte fonda, Enrico Mentana ha così replicato: alla “passionaccia” per la politica non si comanda, sia essa quella del quartiere in cui si vive o della maggiore potenza globale.
Ed è proprio il ruolo di maggiore potenza globale ricoperto dagli Stati Uniti che sembra fornire la chiave interpretativa di tale ondata di entusiasmo.
Un sito di notizie tedesco si è infatti recentemente interrogato sui motivi che spingono i media germanofoni a investire una quantità così rilevante di tempo e risorse nella copertura di un evento politico dall’altra parte dell’Oceano.
Primarie appassionanti come una serie. L’esperta di comunicazione Christina Holtz-Bacha ha indicato nell’estrema lunghezza della campagna uno dei segreti di tale interesse.
Allo stesso tempo, il ruolo preponderante del Paese determina la consapevolezza da parte del pubblico che la scelta dell’inquilino della Casa Bianca è un passaggio fondamentale, con impatti geopolitici importanti.
E che, puntata dopo puntata, è appassionante quanto una serie di Netflix.
C’è un altro elemento che spiega la presenza amplificata di fatti politici che avvengono in un Paese diverso dal nostro: il ruolo crescente dei social media.
L’oscillazione tra razionalità ed emozioni
Al netto della copertura da parte dei mezzi più convenzionali, è nella “social-sfera” che le news riguardanti il voto in Iowa o l’ennesima gaffe di Trump rimbalzano in modo incontrollato sui nostri device.
La politica non può ormai prescindere dai social media e sono i dati a dimostrarlo. Li ha messi in fila il portale statunitense Techcrunch: uno studio di Borrell Associates stima che quest’anno verranno riversati oltre 1 miliardo di dollari per attività di comunicazione e mobilitazione online.
Un incremento colossale, se paragonato ai 22 milioni di dollari effettivamente spesi nel 2008.
Se gli organizzatori di una campagna sono disponibili a investire in modo così massiccio sul digitale è perché sono consapevoli dei risultati ottenibili: Techcrunch cita una ricerca del 2012, secondo la quale la partecipazione elettorale nel caso studiato era aumentata di svariate centinaia di migliaia di unità in seguito a stimoli provenienti dai social media.
L’estremizzazione di House of Cards. La conclusione è radicale: il futuro delle elezioni si decide sul web. Da qui la provocazione: cosa accadrebbe se Mark Zuckerberg decidesse di bannare Trump da Facebook? Che effetti avrebbe sull’improvvisa e inarrestabile popolarità acquistata da un personaggio che strizza l’occhio a populismo, razzismo e isolazionismo?
È un’ipotesi che, come spesso accade, è già stata utilizzata in una serie televisiva. Non a caso, un cult come House of Cards. Nella nuova stagione, la campagna elettorale tra il democratico Frank Underwood e lo sfidante repubblicano si gioca anche sul terreno del web, in una sfida incrociata tra motori di ricerca che manipolano i risultati (Polly Hop, nella finzione) e la targetizzazione degli utenti tramite sistemi di sorveglianza lesivi della privacy.
House of Cards è un’estremizzazione del gioco politico, ma tale elemento della sceneggiatura è il chiaro segnale di una consapevolezza ormai radicata: politica e Rete sono legati da un duplice rapporto di arricchimento e pericolo.
La politica è viva e vegeta. Politico Magazine è stato categorico: i social media hanno distrutto la politica. I tweet beffardi di Donald Trump, le scelte oculate di Hillary Clinton, la rigorosa pianificazione di Jeb Bush, il gusto per la provocazione di Bernie Sanders sono la dimostrazione che la politica è stata ormai assorbita dall’arena dei clic, dei cinguettii e delle istantanee.
Una rivoluzione comunicativa paragonabile all’avvento della radio (che portò per la prima volta la voce dei candidati nelle case degli americani) e alla diffusione della televisione (che determinò in parte il successo di un candidato telegenico quale Kennedy). Il trionfo dell’immediato e dell’emozione sulla razionalità e l’analisi.
Non mi sento di condividere tale conclusione: il fascino della politica risiede anche nel continuo e inarrestabile oscillamento tra l’efficacia delle soluzioni proposte e la capacità di scaldare i cuori.
Lo stesso avviene oggi, tra un cinguettio di scherno e un’infografica condivisa. Le rivoluzioni si affrontano sempre, non si subiscono.
Twitter @gcomin