“Stare sui social”, istruzioni per l’uso
Ci si interroga spesso sull’impatto che i social media hanno avuto negli ultimi anni sui media tradizionali, a partire dalla loro reddittività e dalla capacità di influenzare direttamente l’opinione pubblica. Proprio in questo spazio ho condiviso alcune riflessioni sul processo che il collega Vittorio Meloni ha definito «il crepuscolo dei media» e che è una tendenza da osservare attentamente anche dal punto di vista dei comunicatori d’impresa: se il web appare in grado di assorbire tutti i contenuti e di veicolarli a un’audience potenzialmente sterminata, come ci dobbiamo muovere al momento di selezionare i nostri investimenti in comunicazione? Quali canali sceglieremo per raggiungere i nostri stakeholder di interesse? Il web non può essere l’unica risposta.
Protagonismo ben oltre la firma. A essere inseriti nei social network non sono però solo gli account ufficiali delle nostre testate e delle televisioni, ma anche gli stessi giornalisti che lavorano per questi mezzi di informazione. In un modo totalmente inedito rispetto al passato, il singolo operatore acquisisce un protagonismo che va ben oltre la firma di un pezzo su un quotidiano o la conduzione di un telegiornale.
Essere giornalisti, un ruolo a 360°. Utilizzando una semplice pagina Facebook può dare libera circolazione a ciò che scrive oppure, tramite il proprio account Twitter, interagire in modo disintermediato con i lettori e con gli utenti. Una facilità, quella dello “stare sui social media”, che non deve però trarre in inganno. Essere giornalisti è infatti un ruolo a 360 gradi che non si esaurisce nella semplice partecipazione professionale al flusso inarrestabile dell’informazione. Lo si è sempre, anche nei momenti in cui si tende ad assomigliare in tutto e per tutto, anche in termini di libertà espressiva, ai propri lettori.
Ha fatto un certo scalpore la notizia delle “raccomandazioni” che il direttore di uno degli organi d’informazione più autorevoli a livello mondiale, il New York Times, ha inviato ai giornalisti della sua redazione. Oggetto di questo codice di condotta il comportamento da assumere proprio sui social media, in modo che eventuali “sbavature” o eccessi non abbiano un impatto sulla reputazione del quotidiano.
Consapevolezza del mezzo usato. La vicenda è stata ben ricostruita da Andrea Secchi su Italia Oggi, che ha spiegato come l’irritazione di Dean Baquet derivi soprattutto dalla consapevolezza che, dopo l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca, Twitter sia ormai diventato a tutti gli effetti un’arena di confronto politico in cui ogni dichiarazione può essere ritorta contro colui o colei che l’ha pronunciata.
Più forti delle accuse di pregiudizio. Questo vale per tutti, ma in modo particolare per i giornalisti. L’esigenza, ha ammesso Baquet, è ora quella di non dare adito a possibili accuse di “pregiudizio” non professionale ma eminentemente politico nei confronti dell’Amministrazione Trump. «Ma non posso fare questo se ho 100 persone che lavorano per il New York Times che mandano tweet inappropriati», ha concluso sconsolato Baquet.
È proprio il rischio di un comportamento “che oltrepassa il limite” ad aver spinto il direttore a diramare regole più chiare, per fare in modo che la loro immagine (e, a cascata, quella del giornale) non ne risenta. L’imparzialità, la credibilità, la capacità di distinguere gli effettivi errori di un personaggio pubblico da semplici gaffe (raccontandoli senza eccedere in partigianeria) sono qualità imprescindibili per chi ricopre, per dovere professionale, il difficile ruolo di operatore dell’informazione. Lasciarsi andare a giudizi affrettati, scadere nel turpiloquio, demolire sistematicamente un determinato avversario politico porta fuori strada rispetto al modello di giornalista a cui ciascuno di noi dovrebbe tendere.
Ricordiamoci che «il web non dimentica». Il caso del New York Times è applicabile anche a tutti gli altri settori. Il mantra «il web non dimentica», che diamo troppo spesso per scontato, non dovrebbe essere tenuto in considerazione solo per salvaguardare la nostra immagine pubblica, ma anche per mettere al riparo il nostro percorso professionale da improvvisi e inaspettati contraccolpi. È quello che è successo, in ambito politico, al deputato del Partito Laburista britannico Jared O’Mara, che è stato di recente sospeso per alcune dichiarazioni sessiste che aveva affidato al web in un passato non troppo lontano (nel 2002 e nel 2004).
Rigore professionale messo a rischio. Lo stesso può accadere a un manager scelto per un’importante posizione o al responsabile comunicazione di un’azienda: le nostre tracce online potrebbero essere attentamente scandagliate in ogni momento alla ricerca di aspetti imbarazzanti o prese di posizione eccessivamente marcate, in grado di mettere in dubbio il nostro rigore professionale. Un rischio che non possiamo, e non dovremmo, mai correre.
*Twitter: @gcomin