Per comunicare il patrimonio culturale tiriamolo giù dal piedistallo
La società in cui viviamo è alla costante ricerca di contenuti: originali, innovativi, stimolanti. L’avvento dei media digitali, dal classico Facebook al vivacissimo Snapchat, hanno cambiato in profondità le modalità tramite le quali accediamo ad essi: immagini e video sono sempre più ciò di cui andiamo alla ricerca, compulsando il nostro smartphone o navigando sul web. Immagini che hanno attraversato esse stesse una vera e propria rivoluzione. Nell’ormai lontano 1888 il fondatore di Kodak, George Eastman, coniò il geniale slogan “Tu premi il bottone, noi facciamo il resto”.
Oggi invece l’utente-tipo può immortalare all’istante un’immagine con il suo cellulare e ha un unico imperativo: condividerla con la propria rete di “amici” e follower. Ognuno diventa quindi un trasmettitore, in una corsa contro il tempo che richiede velocità e immediatezza nel diffondere ciò che viene riconosciuto come bello o emotivamente importante. Dal punto di vista del comunicatore, i contenuti ad effetto che dobbiamo intercettare o amplificare sono dunque spesso generati dalla stessa audience che vogliamo ingaggiare.
L’era dei produttori autonomi di contenuti. Un’analisi, questa, che mi piace applicare in particolare al settore dei beni culturali. In un’era di “produttori autonomi di contenuti”, il mondo della cultura è di per sé un contesto nel quale sembra più facile e immediato spingere le persone comuni a oltrepassare la barriera e a non cristallizzarsi nel semplice ruolo di destinatari passivi. Il bacino di coloro ai quali indirizziamo le nostre azioni di comunicazione va in qualche modo coltivato e costruito nel tempo, senza accontentarsi della “comfort zone” rappresentata dalle ormai superate dinamiche top-down. Qualcuno potrebbe replicare che questo grado di raffinatezza (far emergere spontaneamente contenuti che rafforzino la nostra immagine) richiede risorse di cui solo poche istituzioni culturali sono dotate, ma non è così. Non è un caso che siano proprio eccellenze locali ad aver sviluppato in modo particolare questa originale capacità: il Teatro dell’Argine di San Lazzaro di Savena, in provincia di Bologna, e il CAOS Centro Arti Opificio Siri di Terni sono state infatti inserite dalla Commissione Europea tra le 137 istituzioni che possono essere considerate una best practice per il cosiddetto audience development.
La contemporaneità ha aggiunto una dose spesso trascurata di imprevedibilità al mondo della comunicazione ma ci ha anche permesso, non dimentichiamocelo, di superare con facilità limiti che sarebbero stati visti come invalicabili fino a qualche anno fa. Nell’arena del web istituzioni culturali di fama mondiale e piccoli musei di provincia si contendono un pubblico internazionale che va sempre più spesso alla ricerca dell’”inedito” anziché del “già visto”. Un vantaggio competitivo da sfruttare proprio facendo leva sul digitale e sulla possibilità di trasformare il pubblico nel nostro promotore più efficace. Una precisazione doverosa: la comunicazione, anche quella “fatta in casa” con risorse limitate, non dovrebbe mai essere frutto di improvvisazione. L’apporto di professionisti serve innanzitutto per “mettere ordine” in ciò che vogliamo comunicare all’esterno, lavorando in modo puntuale ai contenuti e tenendo d’occhio la strategicità della loro diffusione. Il messaggio, proprio perché è destinato ad un pubblico maturo e reattivo, va dunque personalizzato e adattato alle varie fasce d’ascolto. Senza essere frenati da una concezione elitistica della cultura, ma certamente evitando allo stesso tempo di svilire ciò che promuoviamo banalizzandolo eccessivamente.
Parola d’ordine: interpretare. È qui che entra in gioco la capacità di ascolto e di interpretazione. Il patrimonio culturale, di cui il nostro Paese è un campione indiscusso, non va innanzitutto lasciato su un piedistallo. Per valutare se una struttura museale svolge bene il proprio compito di interfaccia con l’esterno, per esempio, è utile coinvolgere le persone che la vivono tutti i giorni attraverso il lavoro. Il personale di un’istituzione culturale è cosciente della mission della sua struttura? Quali sono i valori che ogni dipendente crede di aver introiettato e che può così trasmettere al pubblico? È proprio da qui che parte la vera coltivazione dell’audience, dal contatto diretto durante l’esperienza di visita. Un altro modo per scrutare il patrimonio dall’interno è la cosiddetta “interpretation”, una branca della moderna museografia che in alcuni casi è diventata un vero e proprio dipartimento museale (è il caso del Philadelphia Museum of Art). L’interpretation interroga, direttamente o indirettamente, il pubblico di un museo e stabilisce di conseguenza le azioni più adeguate alla sua fruizione.
Quei dati da non sottovalutare. La strategia comunicativa si nutre di conseguenza dei feedback costantemente raccolti da chi il museo lo vive attraverso la breve, ma intensa, esperienza della visita. Quali installazioni hanno colpito maggiormente il pubblico? Quali sono i percorsi più apprezzati? Quanto è il tempo di visita e l’itinerario privilegiato? La raccolta di questi dati può avere indubbiamente effetti importanti sulla struttura della stessa strategia comunicativa, con molteplici ricadute: dalla scelta del font più indicato al miglioramento dei testi di accompagnamento delle opere o della loro posizione nel percorso espositivo. Oppure permette di mettere a punto campagne di marketing che promuovono pacchetti di visita ad hoc, in linea con le aspettative di chi ci conoscerà navigando sul web o affidandosi al consiglio di un amico. Interpretazione, per riassumere, come base indispensabile della comunicazione, nel mondo della cultura ma non solo. Di questo e altri temi interessanti abbiamo discusso ad ArtLab Mantova, il 28 e il 29 settembre.
Per chi vuole approfondire questi argomenti, consiglio il sito di Federica Galloni: http://federicagalloni.it/
* Twitter: @gcomin