Cambiano i media o le nostre abitudini?
La crisi dei media così come li conosciamo sembra una tendenza ormai ineluttabile. Peccato che questo tema venga troppe volte affrontato in modo generico e raramente sviscerato in profondità e con lo sguardo rivolto oltre il presente. Un’eccezione in tal senso è il volume pubblicato di recente dal collega Vittorio Meloni, direttore delle relazioni esterne di Intesa Sanpaolo, intitolato non a caso Il crepuscolo dei media (Laterza). Un’analisi rigorosa e documentata dei contraccolpi provocati dal digitale in termini di crescita e sostenibilità economica del settore, che pone però le basi per un’interessante riflessione sugli elementi che lo potrebbero rendere finalmente “a prova di futuro”. Anche io sono convinto che i declinismi di comodo non ci portino molto lontano. Partiamo dunque dalle basi: qual è la funzione sociale e la ragion d’essere dei media?
L’informazione è la “materia prima” che ci aspettiamo, sia come produttori sia come consumatori, quando ci rivolgiamo a essi. Un settore, quello dei media, che non si è certo sottratto allo tsunami dell’innovazione che negli ultimi decenni ha cambiato in profondità tutti i comparti, in modo più o meno evidente e doloroso. C’è da dire però che nessuno di noi tornerebbe mai al passato, né da un lato né dall’altro della barricata: i giornalisti si riadatterebbero con molta difficoltà alla vecchia macchina da scrivere, mentre noi lettori non saremmo più in grado di attendere il notiziario della sera o il quotidiano del giorno dopo per avere informazioni su argomenti di nostro interesse.
Il settore è ancora in evoluzione. L’avvento di Internet e la diffusione degli smartphone ci permettono infatti di essere al centro di un flusso informativo a getto continuo, in costante aggiornamento. Più che dei media, dovremmo quindi parlare di “crepuscolo” di alcune modalità di fruizione che oggi non sono ancora del tutto scomparse, ma che hanno quasi un sentore d’altri tempi. Questi cambiamenti hanno un impatto diretto anche in termini di mercato. Perché il mondo dell’informazione, oltre a essere un’arena indispensabile di confronto che fa bene alla democrazia, è soprattutto un settore economico in fortissima evoluzione, che risponde necessariamente a logiche di business e che è appare preso alla sprovvista dalla rivoluzione digitale.
Ci sono però alcuni esempi di grande dinamismo che dovremmo tenere in considerazione ogniqualvolta riflettiamo, con il dovuto rigore, sul futuro dei media. Prima osservazione: non tutti i quotidiani sono in crisi allo stesso modo. È innegabile che a un netto calo delle copie cartacee vendute corrispondono strategie di reazione più o meno efficaci: la scelta di rendere tutti i contenuti a pagamento tramite il paywall oppure quella di adattare gli articoli alla condivisione sui social, con titolo acchiappa-click e inutili gallery fotografiche. Il contesto del web è sicuramente insidioso, ma questo non vuol dire che per sopravvivere i grandi quotidiani cartacei debbano svendere la propria anima e trasformarsi in “brutte copie digitali” di ciò che erano nel passato.
La reputazione, un capitale prezioso. Pensiamo per esempio ai siti web che si sono imposti negli ultimi anni con la forza del loro brand (HuffPost, BuzzFeed, Politico) o alle testate storiche che hanno cavalcato con destrezza l’onda della digitalizzazione (il Financial Times, l’Economist e
molte altre). I nostri lettori non ci cercheranno in edicola (e non saranno disposti a pagare un solo centesimo sul web) se tutto ciò che saremo in grado di offrire sarà una mera rimasticatura di eventi già coperti da tutti i network televisivi e dai siti di breaking news. La reputazione è dunque un capitale prezioso su cui costruire una nuova autorevolezza, che non può essere basata sull’immediatezza, ma piuttosto sulla capacità di inserire la “notizia” in un frame interpretativo che altri non fornirebbero. In seconda battuta, non tutti i mezzi di informazione sono condannati al declino.
L’esempio delle radio libere. In Italia, la stagione entusiasmante e irripetibile delle radio libere ha infatti posto le basi di un mercato che non dà segni di cedimento. Fare radio oggi vuol dire aggirare l’ostacolo su cui è andata a sbattere la carta stampata perché permette di essere in contatto costante con il proprio pubblico, di non farsi sorpassare dagli eventi, di ottenere un giusto mix fra dovere dell’informazione e intrattenimento puro.
Infine, lo spauracchio dei social media. Oggi sembrano aver risucchiato nel loro vortice tutti i grandi mezzi di informazione, che li hanno colonizzati spasmodicamente alla ricerca di nuova audience. Un’audience, tuttavia, sempre meno propensa ad accedere ai loro contenuti dalle homepage, ma piuttosto a farsi guidare dallo scorrere apparentemente casuale di titoli sulla timeline. Il dibattito sulla “morte di Twitter”, la sfida tra Instagram e Snapchat, la telenovela infinita sull’essenza da “media company sotto mentite spoglie” di Facebook sono tanti tasselli di una grande verità: anche i social non sono realtà immutabili, perfettamente profittevoli e destinati ad assistere impassibili al tramonto dei media tradizionali.
Nuovi mezzi necessitano nuovi adattamenti. L’evoluzione del rapporto tra mezzi di informazione e social network sarà un passaggio fondamentale: da un lato, è necessario un chiarimento della relazione tra produttori e distributori di contenuti (volta a garantire la redditività di entrambi) e, dall’altro, è urgente uno sforzo comune per sviluppare nuove capacità di discernimento da parte dei lettori nel “mare magnum” del web. I media non saranno più gli unici produttori di contenuti o gli inaggirabili gate-keeper dell’informazione, ma sono tuttora una lente insostituibile attraverso la quale guardare il mondo che ci circonda. Sapere che hanno identificato gli strumenti più efficaci per adattarsi al nuovo contesto sarebbe una buona notizia per tutti.
Twitter: @gcomin