Una poliarchia mondiale in trasformazione
di Giulio Sapelli
Il problema della città è problema determinante, che ha sempre guidato la comprensione della trasformazione delle grandi ere, non solo della storia concreta degli insediamenti umani stabili territoriali, ma altresì della riflessione intellettuale sui medesimi. Il passaggio d’epoca in cui siamo immersi ci impone di compiere delle scelte cruciali: un obbligo che deriva dalla trasformazione in corso nell’economia e nelle culture mondiali.Si tratta di un passaggio assai simile a quello cinque-seicentesco che impose la “corsa Atlantica” a tutto il pianeta, così sostituendo il “passo Mediterraneo”.L’“oro di Potosi” cambiava le ragioni di scambio così come oggi il passaggio dall’Atlantico all’Indo-Pacifico riclassifica le condizioni in cui la vita sociale si svolge. Gli ”insediamenti umani stabili” che chiamiamo città o metropoli o borghi e financo campagna urbanizzata (ché di questo si tratta in gran parte del pianeta) misurano la “quantità” di quella “stabilità” sempre più peristaltica, per via dei flussi migratori che circondano – sino a invaderli e a trasformarli – quegli “insediamenti umani stabili” in perenne trasformazione.
Non potevamo, quindi, non dedicare il secondo numero di “Comprendere” (secondo tentativo di interpretare lo spirito dei tempi) alle città.Alle città intese come polis, quale che siano le loro dimensioni, ambizioni, contraddizioni, sogni. Tra bellezza e sfida alla bellezza: perché anche di questo ci occupiamo in queste pagine, in una riflessione severa e piena di speranza. Iniziamo mettendo ordine nella tavola dei problemi. Transizione energetica, emergenza climatica, intelligenza artificiale, sintesi di un percorso umano che riempie di sé anche lo spazio e non più solo la sempiterna terra: tutto questo ridisegna il volto della città. Le città “costruiscono” le società in tutto il mondo, ovunque inizi, secoli e secoli orsono, una vita umana sociale stabilmente insediata su un territorio.
Le fondamenta interpretative si ritrovano negli studi che Max Weber, nella sua “prima vita” di studioso dell’economia antica pre-capitalistica e pre-feudale, aveva dedicato a quegli ”insediamenti i cui abitanti non vivevano per la maggior parte di un reddito agricolo, ma del guadagno manifatturiero e commerciale”.
La città, quindi, è ”insediamento di mercato”. Insediamento, si noti, immediatamente mondiale: in tutto il mondo presente, ieri come oggi.
La tessitura intellettuale weberiana è ancora oggi essenziale per comprendere la coesistenza dei diversi volti della poliarchia, in un mondo che la cosiddetta globalizzazione non ha di fatto mutato nei secoli in quelle che sono le antiche nervature politico-insediative, là nel costrutto della formazione degli stati in tutto il mondo antico e moderno: gli insediamenti umani locali stabili, gli insediamenti urbani. Diverso il ruolo delle città nelle terre europee e in quelle non europee. La prima cosa che balza in evidenza è il rapido trasformarsi nei continenti non europei delle città in metropoli: già nel finire degli anni trenta, quando Levy Strauss giunge con Braudel a San Paolo del Brasile, e lo narra all’inizio di Tristi Tropici San Paolo gli appare non città, ma “aggregato” tra l’urbano e il campestre: un “campestre” quale poteva essere l’immenso della giungla mischiato alla sempre eguale presenza del “sertao”.
Il trasformarsi della città del Sud del Mondo in aggregato umano stabile è assai diverso da ciò che accadde e accade riguardo alla città europea: esso è il trasformarsi in metropoli, e ciò per il diverso percorso di crescita di un capitalismo non europeo, dipendente ed estrattivo insieme, che contrassegna gli insediamenti urbani ad alta intensità migratoria di grandi masse umane afro-continentali, sud-americane, asiatiche e sud-est asiatiche.
Senza studio delle migrazioni interne e di quelle sovranazionali non si comprende nulla delle città: dovremmo averlo imparato. Tanto più in “Oriente”. E tutto era già scritto nel capolavoro di Kemal Karpat nella prima metà del decennio degli anni Sessanta del Novecento.
La città diviene, dalla metà dell’Ottocento in poi, con la creazione della moderna haute finance mondiale, il centro della potenza modernizzante capitalistica, sia in Europa e nell’America del Nord, sia in Asia, sotto la forma di quell’ersatz capitalism magistralmente descritto dal vecchio amico Kunio Yoshihara nel suo sempre attuale e sempre troppo poco letto: The rise of ersatz capitalism in South-East Asia, un capitalismo che ha superato i confini asiatici per divenire il volto della produzione di plusvalore anche tra le mille disuguaglianze scritte sulle mura delle favelas e delle vejas miserias e dominato da specialissime forme di famiglie non nucleari.
Esse consentono la riproduzione sociale con forme antropologiche ben diverse da quelle che erano all’origine dei capitalismi first mover: le ascendenze agnatiche aristocratiche e borghesi europee e quelle completamente borghesi e working class nord americane. Il mondo di oggi, del resto, non ci presenta più forme dicotomiche riproduttive del sociale: tutto si sta sud-americanizzando e mesopotamizzando: tutto si frastaglia. Dobbiamo esserne consapevoli, se vogliamo seguire la capacità comparativa sociologica weberiana per trarne le conseguenze nel nostro essere nel tempo. L’interconnessione fortissima con la borghesia compradora urbana, intimamente legata alle borghesie centrali dell’ersatz capitalism estrattivo coloniale e postcoloniale, disegna il volto delle metropoli del Sud del Mondo.Il fatto che in tutti gli altri continenti del mondo la metropoli sia il centro del rapporto tra territorio e stato, anziché la città, come in Europa e nello stesso Nord America accade, dove i modelli, tuttavia, città-metropoli spesso si compongono senza opposizione, e dove il residuo cittadino è più forte di quanto non si creda, consente in quei mondi vitali una legittimazione borghese molto più forte di quanto non sia in Africa e in Asia, e in America Latina, così come del resto, anche nella splendidamente isolata esperienza australiana.
Le città del sud del mondo sono, dunque, un punto di riferimento per comprendere le trasformazioni planetarie in corso.Il tema del conflitto sociale è altresì determinante.Le “classi pericolose” descritte nel capolavoro di Louise Chevallier, non sono più “le ultime” come quelle della Parigi dell’Ottocento, così come a New York, a Londra (ricordiamo Engels e i Suoi scritti).Oggi le classi pericolose sono “i penultimi”, non gli ultimi marginali della stratificazione sociale, sono i ceti che si costituiscono come “quasi gruppi galliniani”: i giletsjaunes della campagna urbanizzata e della campagna non solo francese, ma altresì italiana e spagnola e bavarese, che con e contro i migranti divorano, accerchiandole e permeandole, le città. (Si pensi alle recenti elezioni in Nuova Zelanda, tutte contrassegnate dal confronto tra l’immigrata working class e le popolazioni autoctone). Così ci insegnava e ci insegna Kemal Karpat nel suo capolavoro: Ghegekundo, già ricordato e ancora insostituibile per capire di città e la sua trasformazione per la forza sociale della “campagna inurbata”.
Oggi questa incipiente dissoluzione è nell’azione sociale non solo dei giletsjaunes, ma altresì dei trattoristi e degli agricoltori tedeschi della Bassa Baviera e dell’Est tedesco che vivono in “città estese” e campagne frammentate, come quelle veneto-emiliane e castigliane, con la distruzione dell’ambiente e l’entropia energetica dell’inquinamento.Un’azione sociale diversa da quella dei contadini boliviani indio, i quali hanno dato vita a un indigenismo che ha trasformato città sudamericane, come Quito e La Paz, in un modo prima mai visto e previsto: ma anch’essa – quell’azione sociale – genera dissoluzione dell’antica roccaforte originaria. Una dissoluzione che tramuta l’intero volto della società politica e dei partiti politici sudamericani. Pensiamo alla fine dell’APRA in Perù, tracimato nella distruzione delle storiche classi medie peruviane che sono state, con gli operai argentini peronisti, gli incunaboli delle trasformazioni politiche sud americane dell’ultimo secolo.
Tutto sta cambiando e tutto cambia nelle e dalle città.In Asia, Hong Kong non è solo un fenomeno della borghesia cinese che non voleva essere totalmente assorbita dal rullo compressore del neo-maoismo di Xi Jinping, ma l’epifenomeno di una trasformazione politica e sociale che investe anche le classi medie e “gli ultimi” indonesiani e filippini, come dimostrano le rivolte sociali urbane di questi anni. Se pensiamo che le rivolte libanesi, tunisine, libiche, egiziane, cui assistiamo da più dieci anni pressoché ininterrottamente, si sono via via ampliate partendo dalle città che sono la nervatura essenziale di quegli stati e “quasi stati” dalle storie diversissime, comprendiamo che studiare le città è decisivo per comprendere cosa sta accadendo nel mondo.La discussione sulla globalizzazione ha, però, oscurato i temi della genesi storico-concreta della nuova città tardo capitalistica che sorge dinanzi ai nostri occhi e ha spostato l’attenzione più sui temi del government cittadino che su quelli della sua significatività economico-sociale, che non può che essere, insieme, tanto simbolica quanto materiale. La ragione di ciò è evidente. La mondializzazione dell’economia de-gerarchizza, negli anelli mondiali del potere, il ruolo degli stati nazionali (non li elimina, infatti) e pone su una più alta gerarchia del potere le città, intese come cerchie sociali di aggregazione, più o meno dense, di relazioni donative, di valori di scambio, di valori d’uso, tanto di aggregati umani quanto di sedimentazioni di stocks di capitali, che sono valorizzati o attendono di esserlo. Ovunque, il lavorio immobiliare è intenso, rivestito di panni scientifico-creativi, museografici, di villes des loìsirs o di nuovi landscape artistici, biodinamici, neo forestali, ecc. Ormai si parla sempre più frequentemente di marketing locali che sono divenuti incunaboli di professioni e quindi di ceti e classi sociali, che fanno sentire la loro voce con l’attività di lobby e con l’advertising. Ma tutto ciò riclassifica in forma radicale il rapporto tra pubblico e privato e lo si fa a partire dalla dimensione urbana.
Il mercato trova in tal modo un sostegno nella rete di servizi che il governo della città è in grado di offrire e questo è un formidabile incentivo per riclassificare il rapporto tra funzioni direttive e funzioni decisionali nell’aggregato urbano. Questa è la ragione di fondo che spiega la crescita dell’interesse delle città come reti della conoscenza e poli aggregativi possibili dell’eccellenza nelle prestazioni lavorative, con tutta la vulgata sui talenti creativi che ne consegue.
La valorizzazione del capitale non si fonda più sulle logiche della città soltanto produttiva, quanto su quelle della città dei servizi, sia in Europa sia nei continenti in cui alle città è ancora affidato ancora anche un ruolo industriale: si pensi per esempio ad Agra, a Pechino, a Mumbay ecc. La città europea e nord-americana, salvo quelle eccezioni straordinarie che sono ancora le città dell’automobile e della siderurgia negli USA, è radicalmente cambiata. Non è più lo spazio della riproduzione di una forza lavoro industriale i cui rappresentanti politici cogestivano interclassisticamente le funzioni di urbanizzazione in un complesso equilibrio tra conflitto e partecipazione. I conflitti francesi nelle banlieues sono stati i più esemplari epifenomeni di quanto intendo significare: la nuova produzione immateriale, autonoma, diffusa, piccola e media attorno alla famiglia che svolge attività d’intrapresa in forma nuove rispetto al passato, è ancora istituzionalmente invisibile e per certi versi ingovernabile proprio laddove – la città medioevale e poi borghese – era nata l’idea stessa di governo della polis. L’altro elemento del motore dell’economia e della città è oggi rappresentato dall’innovazione (e quindi dal profitto schumpeteriano) innovazione intesa come una variazione delle tecnologie nei mercati e nei prodotti, e, nello specifico urbano, nelle attività presenti nella città: il proprietario del suolo urbano sarebbe posto in grado di appropriarsi, grazie all’“agglomerazione” dei vantaggi “dell’atmosfera urbana” generatrice d’innovazioni, dei profitti schumpeteriani.Lo sviluppo delle forze produttive avvoltolato nei rapporti sociali capitalistici cangianti è proseguito. Con ancor più divisioni sociali e ineguaglianze, nella poliarchia mondiale finanziarizzata frammentata geopoliticamente. E siamo rimasti senza teoria, ma non siamo troppo stanchi per rifondarla come dovremmo.
Un filo per tessere la tela esiste.
Sentiamo un grande saggio: «finché si continua a pensare che la città sia una macchina – come parecchi ancora oggi pensano – sarà impossibile arrivare a qualche risultato, anche dopo aver stabilito in proposito il ruolo della mediazione cartografica, secondo il nesso: la mappa è una macchina, dunque la città, che è una mappa, è anch’essa una macchina. Così si arriva poco lontano».La città, infatti, è un costrutto sociale, un essere sociale vivente: così abbiamo cercato di rappresentarla negli scritti qui raccolti: per comprendere.