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Neuromarketing

Non profit, per la raccolta fondi la chiave è l’e-mail

Si parla spesso di new media, social network e mezzi di informazione digitali senza interrogarsi sugli strumenti base che ancora oggi formano l’ossatura dello sviluppo 2.0 e contribuiscono alla creazione di campagne di coinvolgimento e advocacy di alto livello.

Primo fra tutti la e-mail.

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Un ruolo centrale. Da molti considerata morta e priva di futuro, è uno strumento che nonostante i suoi 34 anni di età continua ad avere un ruolo centrale nelle strategie di advocacy e direct marketing di aziende, istituzioni e organizzazioni non profit.
L’influenza dell’e-mail continua a crescere anno dopo anno e, a fine 2014, gli account di posta elettronica a livello globale erano 4,1 miliardi.

Strumento essenziale. Nella giungla dei social media e delle campagne di mobilitazione, dove per trovare spazio e ascolto bisogna affrontare budget enormi messi in campo dalle grandi organizzazioni, le e-mail rimangono uno strumento essenziale per le organizzazioni che fanno i conti con fondi ristretti e l’esigenza di raggiungere un pubblico sempre più ampio di persone.
Uno dei settori che trae maggiori benefici dall’utilizzo di questo strumento è il terzo settore.

Donatori da raggiungere. La posta elettronica è parte integrante della cassetta degli attrezzi delle Ong, come supporto alle campagne di raccolta fondi e call-to-action verso i donatori.
Il settore vive un periodo complesso, aggravato dalla crisi degli ultimi anni, che ha visto scendere sensibilmente il tasso di donor retention delle persone.

Aumentano i tassi di lettura. Uno studio del 2014, che ha preso in esame i dati di 3.576 organizzazioni non profit, evidenzia che nel 2014 solo il 43% dei donatori ha reiterato l’offerta.
Lo studio rivela inoltre che su 100 nuovi donatori conquistati, 102 sono quelli persi per strada.
Ma nonostante questi numeri in calo, il 2014 ha visto crescere i tassi di lettura (open rate) delle e-mail del 4% e i database sono aumentati dell’11%.

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Crisi in azienda? State attenti ai dipendenti

Oggi voglio partire dalla preistoria, e dalla psicologia evoluzionista, che ha mostrato come già per i nostri avi le brutte notizie fossero più importanti di quelle buone.

Questo fenomeno si lega al nostro istinto di sopravvivenza: mentre la conoscenza di un fatto positivo poteva non influire in alcun modo sulle loro vite, l’ignoranza rispetto a un fatto drammatico poteva invece compromettere la sopravvivenza.

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Riportandoci al contesto economico attuale e prendendo come metro di paragone le organizzazioni complesse, è evidente come qualsiasi notizia negativa o situazione di crisi possa influire sulla vita e le percezioni degli stakeholder. Le persone che risentono maggiormente di queste notizie però sono i dipendenti stessi, poiché ne va della loro stessa reputazione e quindi della loro “adesione” al progetto imprenditoriale di cui fanno parte.

Cruciale la comunicazione con i dipendenti. In questi casi la fonte attraverso cui vengono a conoscenza delle notizie negative è cruciale. Scoprirla dall’esterno, attraverso i media, determina un alto livello di choc e di frustrazione, che va a intaccare il livello di fiducia verso il proprio employer. In poche parole, il capo sapeva ma ha nascosto al suo stesso staff la notizia, senza sentire il bisogno di informarlo.

Una serie di ricerche empiriche mostrano come, nonostante il principio internal before external communication, la maggior parte dei dipendenti scopra le notizie relative a una crisi dai media generalisti.

Nel corso di una indagine su 496 dipendenti all’interno di un’azienda tedesca, condotta dalla rivista Comunication Director, è emerso che 300 di loro hanno scoperto le notizie negative attraverso i mezzi di comunicazione, il 50% dei quali come prima fonte di informazione. Meno di uno su cinque sono stati invece informati attraverso la comunicazione interna.

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Cinque serie tv sulla politica da non perdere

Questa settimana vorrei uscire dai binari tracciati in questi mesi nel mio appuntamento settimanale con la rubrica Spin doctor e parlare di quel mondo a cavallo tra fanta-politica e realtà dei giochi di potere rappresentato dalle serie tivù che trattano di politica e di creazione del consenso, di comunicazione e attività di lobby.

Come i grandi leader. Esperienze che ricalcano delle volte fedelmente quello che accade negli uffici presidenziali dei più grandi leader mondiali.

Di seguito una non-classifica sulle migliori rappresentazioni della scena politica contemporanea in televisione.

1. House of Cards: cinismo, Realpolitik e intrighi di potere

Una serie che non ha bisogno di presentazioni, seguita dai più grandi leader di tutto il mondo, tra cui i due presidenti americani che hanno tracciato la storia politica Usa degli ultimi 20 anni come Barack Obama e Bill Clinton, nonché il nostro premier Matteo Renzi.

L’attuale presidente americano, alla vigilia del debutto della terza serie su Netflix, ha twittato: «Domani: @HouseOfCards. Niente spoiler, per favore».

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Clinton: «Il 99% è realistico». L’ex presidente Clinton invece, caro amico di Kevin Spacey, in un’intervista per Gotham ha dichiarato: «Kevin, il 99% di quello che fai vedere nella serie è realistico. L’1% che non hai azzeccato è che non riusciresti mai a far passare una legge sull’istruzione così in fretta».

Perfetta visione delle lobby. Questo misto di cinismo, realpolitik e intrighi di potere stupisce per un aspetto che è difficile da trovare in altre serie televisive: la visione delle lobby, spiegata e agita in maniera molto attenta, senza essere mitizzata o portata agli eccessi. I lobbisti si integrano in maniera efficace e assolutamente realistica nella trama del racconto. 

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Lobbying in Ue, Slovenia campione di trasparenza

Ho scritto sulla differenza tra il modo di fare lobby in Europa e negli Stati Uniti e ho lanciato più volte un appello per istituire una regolamentazione chiara ed efficace della “rappresentanza di interessi” nel nostro Paese.

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A tentare di fare luce sullo stato dell’arte delle politiche in materia di lobbying in Europa ci ha pensato Transparency International, think tank che fa della «lotta alla corruzione in un’ottica internazionale» la sua missione.

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Più soldi ai politici: così gli Usa possono limitare le lobby

Il bilancio operativo 2014 del parlamento americano ammonta a quasi 2 miliardi di dollari (1,16 miliardi per la House of Representatives, 820 milioni per il Senato), comprensivi delle spese per il personale di servizio.

Una cifra importante, ma che rappresenta tuttavia all’incirca il 25% in meno rispetto a quanto spendono le big corporation per lobby e attività di pressione proprio tra i loro di senatori e deputati.

 

Secondo il politologo Lee Drutman, autore del libro The Business of America is Lobbying, questo divario implica due ordini di problemi: il primo riguarda il livello d’informazione dei membri del Congresso, il secondo gli obiettivi e la carriera di questi ultimi.

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Legge sulle lobby, il tempo è ri-scaduto

A settembre 2014 ho parlato della necessità di mettere mano alla legge sulle lobby, augurandomi che il presidente del Consiglio Matteo Renzi riuscisse a cogliere quell’obiettivo già mancato dai suoi predecessori Romano Prodi, Mario Monti ed Enrico Letta e già raggiunto da molti Paesi nel mondo.

Il tempo era scaduto da un pezzo, ma niente è cambiato da allora. I legittimi portatori di interessi continuano a essere scambiati per faccendieri, opportunisti delle relazioni, professatori del «faccio cose, vedo gente».

LOBBY CON REGOLE PRECISE. La volgata del «Ah Fra’, che te serve?» rovina la reputazione di una categoria di seri professionisti, che porta avanti un mestiere con regole precise, strumenti leciti e sforzi per raggiungere gli obiettivi dei clienti rappresentati, nel mentre cresce l’attenzione anche di gruppi internazionali e delle importanti firm americane per il mercato della lobby europea e italiana.

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Grandi manovre a K Street: si cambia pelle

La potente Associazione dei lobbisti americani ha cambiato nome e si avvia a una nuova strategia di posizionamento della professione nella società.

L’attività di rebranding potrebbe apparire normale in un processo di evoluzione del marchio, se non fosse che è proprio la parola ‘Lobby’ ad essere sparita dalla definizione dei professionisti di categoria: da American League of Lobbyists si è passati alla più generica Association for Government Relations Professionals (Agrp).

Un cambio non da poco, considerato che parliamo del Paese che per primo ha riconosciuto il valore di questa professione nella dinamica democratica ed è sempre preso a modello per la naturalezza con cui ci si approccia alle attività di lobbying e ai professionisti della categoria.

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AZIONE DI RIPOSIZIONAMENTO. Un cambio che vuol dire, neanche troppo velatamente, riposizionare l’Associazione verso i propri stakeholder di riferimento, ma soprattutto verso il bacino dei potenziali associati.

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Generazione Millennials, felice solo se condivide

Si sente spesso parlare negli ultimi tempi dei Millennials e di quanto sia importante comprendere i loro comportamenti e stili di vita per gli esperti di marketing e comunicazione.
Forse oggi il loro potere di acquisto non è ancora decisivo, ma nel prossimo futuro saranno i gestori delle scelte di consumo che le aziende dovranno cercare di conquistare a forza di pubblicità e attività di comunicazione.

La domanda che sorge spontanea è chi siano i Millennials, che cosa li definisce come tali e in che modo è possibile identificarli.

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OGGI HANNO TRA I 18 E I 35 ANNI. Partendo dal presupposto che è difficile darne una definizione univoca, e aiutandosi con i criteri socio-demografici, i Millenials sono quelle persone diventate adulte a cavallo del nuovo millennio, e che hanno quindi tra i 18 e i 35 anni. Una forbice piuttosto ampia che comprende persone nate tra il 1979 e il 1996, ma che si assottiglia se guardiamo al contesto socio-economico in cui sono costretti in qualche modo a vivere.
I Millennials sono stati colpiti dalla più grave crisi economica e finanziaria dalla Grande Depressione degli Anni ‘30.

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