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Il bersagliato spot Rai su Sanremo un senso (sotto sotto) ce l’ha

Potrebbe sembrare quasi un paradosso: come comunicare se si è responsabili delle attività di comunicazione di un grande network televisivo o di una media company? Le sfide sono esattamente le stesse a cui deve far fronte un’azienda tradizionale: valorizzare i propri punti di forza, raccontare i successi, stabilire un rapporto costruttivo e di fiducia con il mondo dell’informazione, dialogare in modo efficace con gli stakeholder più rilevanti e garantire che le risorse interne siano coinvolte.

pubblicita-sanremo-fetiMix di linguaggi diversi. Guardiamo, per esempio, al caso della Rai e a come stanno evolvendo le strategie comunicative della tivù di Stato guidata da Antonio Campo Dall’Orto e dalla squadra della comunicazione di Giovanni Parapini. Essere servizio pubblico, indubbiamente, comporta l’adozione di uno stile diverso (più istituzionale e in linea con la sensibilità del Paese), ma non per questo rigido o poco innovativo. Quello che fa la differenza è sempre la capacità di dosare linguaggi diversi, mixando strumenti di comunicazione senza perdere mai il gusto per la sperimentazione.

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Svolta digitale della carta e nuovi ruoli dei social: le news cambiano

Il dibattito sulla post-verità e sulla pericolosità delle bufale ci ha accompagnato nel passaggio al 2017, dopo 12 mesi che hanno sconvolto in modo imprevedibile il mondo che ci circonda. Facciamo però un passo indietro, prima di farci risucchiare nella discussione su quanto le notizie false e le affermazioni prive di ogni fondamento abbiano agevolato la vittoria dell’eccentrico Donald Trump, pronto a prendere possesso della Casa Bianca venerdì 20 gennaio. Perché se è di notizie che stiamo parlando, dovremmo innanzitutto capire da dove le ricaviamo nella nostra vita quotidiana. L’informazione è ovunque: dal nostro cellulare a uno schermo in metropolitana, dalla rivista patinata alla timeline dei nostri profili social.

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Essere leader nel 2017: tre sfide per una mission vitale

In questi primi giorni del 2017 è bello riflettere sulle sfide che ci attendono nel nuovo anno, sia in ambito professionale sia nella vita privata. Questo vale soprattutto per chi siede ai vertici di una società: valutare la propria performance, inquadrare i margini di miglioramento e sentire il polso della situazione in azienda sono azioni utili per capire se si sta andando nella giusta direzione. Una domanda provocatoria: che cosa vuol dire essere leader nell’era del digitale? Un tema che, non a caso, un colosso della consulenza come McKinsey ha messo spesso al centro delle sue analisi nel corso del 2016.

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Viralità, integrazione e dialogo: comunicare nel 2016

La fine dell’anno è sempre un momento utile per fare qualche riflessione sui trend più interessanti del proprio settore. Senza la pretesa di essere esaustivo, vorrei chiudere un altro anno di questa rubrica con una breve sintesi di quelli che sono, secondo me, gli elementi di maggior rilievo che hanno contraddistinto il mondo della comunicazione nel 2016.

Attenzione alle bufale. Non è un caso che la parola dell’anno sia “post-verità”. Nell’era del web e delle informazioni a portata di click, sembra sempre più difficile stabilire in quali sedi e grazie a quali strumenti si può risalire alla verità. Il 2016 ha visto il trionfo di narrazioni della società e di posizioni politiche spesso sganciate dall’esigenza di verificare la veridicità di quanto viene affermato nel dibattito e questo, a lungo andare, rischia di creare confusione e smarrimento.

Un esempio tutto italiano è costituito da un articolo con una falsa dichiarazione del neo presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, che ha totalizzato un impressionante record di condivisioni: oltre 15 mila in alcune ore. Possibile che tutti questi utenti abbiano dato per buona una frase approssimativa come «Gli italiani smettano di lamentarsi e facciano sacrifici»? Sì, perché forse si è perso quel senso di autorevolezza che dovrebbe distinguere un grande quotidiano da una pagina di fake news. La via di uscita potrebbe passare da un controllo più serrato “a monte” da parte degli stessi mezzi di informazione. In più, bisognerebbe fare di tutto per sensibilizzare maggiormente i nostri lettori a scorrere con un occhio critico la propria timeline su Facebook o Twitter, anche rendendo percepibile la differenza in termini di contenuto e completezza rispetto a una qualsiasi pagina web.

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L’unione di pubblico e privato può salvare la cultura italiana

Quando parliamo di impresa e cultura, o di gestione di un istituto o bene culturale, i luoghi comuni si sprecano: conflitto tra tutela, cioè conservazione, e valorizzazione, cioè fruizione del bene; estrema burocratizzazione della relazione; scarsità finanziaria; gestione rigida del personale e così dicendo. Tutte argomentazioni valide in un Paese dall’offerta culturale abbondante e diffusa.

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La cultura come la marmellata. Tuttavia ci sono eccezioni. Come quella presentata da Marina Valensise, direttrice fino all’estate 2016 dell’Istituto Italiano di Cultura a Parigi, che in un divertente e istruttivo libro ha raccontato una esperienza quadriennale di successo. Un manuale moderno della buona gestione delle relazioni. «Leggere questo rendiconto del mio viaggio nella pubblica amministrazione», scrive infatti la Valensise, «spero potrà servire a chi opera sui due versanti, quello pubblico e quello privato, superando la reciproca diffidenza e il doppio ostacolo che rischia di vanificare gli sforzi comuni: e cioè da un lato il sospetto che spesso paralizza la pubblica amministrazione nei confronti della proposta lanciata da un privato; dall’altro, l’eccesso di autoreferenza da parte del privato, che rischia di straripare rispetto all’interesse pubblico e alla naturale visione d’insieme dell’amministrazione. Intendiamoci, non si tratta di conciliare l’inconciliabile, ma di tentare di superare lo stallo che contrappone i fautori del mercato e della libertà di impresa ai custodi dell’ortodossia».

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Contro i “demoni” serve la comunicazione sobria di Mattarella

Il netto prevalere del No alle riforme costituzionali promosse dal governo di Matteo Renzi è arrivato a conclusione di una aspra campagna referendaria, che si lascia alle spalle un Paese sfibrato da mesi di toni accesi e durissimi. Un surriscaldamento dello scontro che si è allargato a macchia d’olio, dalle aule parlamentari agli studi televisivi, dalle piazze ai social media. Il dibattito sulle modalità con cui modificare i meccanismi decisionali previsti dalla nostra Carta ha portato a una polarizzazione confusa, che ha tagliato trasversalmente i blocchi sociali: nel fronte del ”Sì” e del ”No” si sono infatti riconosciuti sia appartenenti all’area di centrosinistra sia di centrodestra, sia i più giovani sia i più anziani, al Nord come al Sud. È proprio in un momento di profonda lacerazione come questo che abbiamo l’occasione di testare il valore di uno stile comunicativo in controtendenza come quello della presidenza della Repubblica.

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Nell’era della post-verità restituiamo valore alla tivù

Non è stato certo l’autorevole parere dell’Oxford Dictionary a convincerci che viviamo in un’epoca in cui domina il pericolo della disinformazione, amplificato dalla dirompente moltiplicazione di canali e dal proliferare delle piattaforme da cui attingiamo quotidianamente notizie. Sembra quasi un luogo comune, ma è incredibile pensare che sia possibile seguire i maggiori avvenimenti o cercare di costruire una propria opinione politica anche solo affidandoci distrattamente ai contenuti che le nostre innumerevoli timeline, su Facebook o Twitter, mettono insieme per noi.

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Internet a doppio taglio. Questa facilità di fruizione comporta però molti rischi. Ecco che la “bufala” (o post-verità) diventa qualcosa di tangibile e di insidiosissimo: una pagina web con un nome ambiguo, un portale che sembra rivelare verità che i media mainstream nascondono, post virali che destano l’indignazione di un secondo e si prestano a essere condivisi con la nostra community in un clic. Come disinnescare questo rischio? Ci sono due recenti eventi politici che sembrano aver risvegliato improvvisamente la consapevolezza del problema. Prima dell’estate, la decisione del Regno Unito di “staccarsi” dal Continente uscendo, con modalità ancora tutte da definire, dall’Unione europea. A inizio novembre, l’arrivo del ciclone Donald Trump alla Casa Bianca ha spinto molti ad avanzare dubbi sugli strumenti che il mondo dell’informazione e del web fornisce ai cittadini.

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Il gender gap non è solo ingiusto, ma anche svantaggioso

C’è un’espressione che negli ultimi mesi troviamo su tutte le pagine dei giornali: “Industria 4.0”. Una nuova rivoluzione industriale che, anziché essere basata sul carbone, sull’energia elettrica o sull’informatica, darà luogo per la prima volta a un ciclo di produzione automatizzato e interconnesso. Una “rivoluzione” necessita in realtà di tante piccole rivoluzioni, magari meno altisonanti ma più profonde e incisive. Una di queste è quella che dovrebbe permetterci di colmare il cosiddetto gender gap, la disparità di genere che non assicura le stesse opportunità professionali alle donne e agli uomini. Un contesto economico diseguale, in cui il potenziale femminile non viene adeguatamente sfruttato, non è solo ingiusto ma profondamente inefficiente.

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Talent pipeline inceppata. Non colmare il gender gap significa trascurare un inestimabile capitale di talento e ha un impatto misurabile in termini di business. Lo ha messo nero su bianco il World Economic Forum in un report pubblicato all’inizio di quest’anno: anche se le donne sono mediamente più istruite degli uomini a livello globale, la loro probabilità di occupare posizioni di leadership è solo il 28% di quella degli uomini. Questo nonostante sia donna la maggioranza delle matricole universitarie in 100 Paesi. In un settore alla continua ricerca di potenziale umano come quello dell’informatica e della tecnologia, paradossalmente, solo il 37% degli operatori ritiene che allargare la componente femminile della propria forza lavoro sia funzionale agli obiettivi di crescita. È la talent pipeline che sembra essere inceppata: esaminando tutti i settori, risulta che il 33% dei dipendenti junior è donna, ma tale percentuale frana al 15% e al 9% se consideriamo il livello senior e i vertici aziendali.

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Il flop dei big data e non solo: cosa ci insegna Trump

A una settimana dal voto che ha incoronato l’immobiliarista repubblicano Donald Trump nuovo presidente degli Stati Uniti, ci stiamo abituando a immaginarlo accomodato in poltrona nello Studio ovale.
Non è un mistero che gran parte del pubblico (e quasi tutti i media) del Vecchio Continente tifasse spregiudicatamente per la democratica Hillary Clinton, ma le cose non sono andate come ci aspettavamo.

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Simpatie da archiviare. Ora che la polvere dello scontro inizia a posarsi, dobbiamo mettere da parte le nostre simpatie e fare uno sforzo di elaborazione.
Ecco quattro lezioni che possiamo provare a trarre dall’inaspettata vittoria di Trump.

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Action tank, dai pensieri ai fatti

Da tempo sento ripetere una formula interessante, che mescola elaborazione intellettuale e capacità di intervenire sul reale. Si tratta di “action tank”, una definizione che esprime efficacemente l’esigenza di raccogliere idee di policy e di trasformarle in azioni concrete. Il riferimento è al ben più noto concetto di “think tank”, i cosiddetti “serbatoi di pensiero” dai quali, nel mondo anglosassone, si attinge per dare una base scientificamente solida a un’ipotesi di intervento politico. Centri studi caratterizzati dalla presenza di un team di esperti che, tramite attività di ricerca non puramente accademica, sono in grado di supportare il decisore pubblico nell’identificare le soluzioni migliori per affrontare un problema, garantendo un approccio autorevole e neutrale.

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