I momenti migliori della nostra vita sono anche quelli che scegliamo di immortalare attraverso l’obiettivo di una macchina fotografica. Questo vale per tutti, sia per il nostro vissuto privato sia per quello professionale. Non mi stancherò mai di ripetere che una componente fondamentale dell’immagine del top management di una società è anche rappresentata dai materiali fotografici che mettiamo a disposizione del pubblico. Il ritratto ufficiale dell’amministratore delegato, le fotografie che testimoniano la sua partecipazione a convegni o a momenti importanti per l’azienda sono un patrimonio a cui possono attingere i media e chiunque navighi sul sito web corporate. Un’attenzione per la cura della propria immagine che vale ancora di più per le figure che ricoprono importanti ruoli istituzionali.
Il passaggio al secondo turno delle elezioni presidenziali francesi del candidato centrista e filoeuropeista Emmanuel Macron e della leader dell’estrema destra Marine LePen è sicuramene l’evento politico più discusso degli ultimi giorni. Non spetta a me fare valutazioni di carattere politico, quanto piuttosto cercare di capire quali “lezioni” possiamo trarre: dall’ambito digitale ai vituperati sondaggi, passando per il nuovo modo di raccontare un appuntamento elettorale così cruciale e denso di incognite.
Non solo “mi piace”. Sembra un’affermazione scontata, eppure in molti casi tendiamo ancora a considerare i social media come qualcosa di accessorio, utile solo per lo stuolo di “smanettoni” che non verrebbero raggiunti con i mezzi più tradizionali. Innanzitutto, è bene precisare una volta in più che una presenza forte e incisiva sui social network ha un’importanza che va ben oltre la contabilità dei “mi piace”. I contenuti che diffondiamo su Facebook o su Twitter sono parte integrante della nostra comunicazione giornaliera e un tassello fondamentale dell’immagine del candidato.
Una giovane modella impegnata in uno shooting fotografico, le strade invase da manifestanti per la pace, la decisione improvvisa della ragazza di abbandonare il set e di unirsi sorridente ai coetanei. Infine, l’immagine-simbolo: il confronto silenzioso tra i manifestanti e un cordone di poliziotti anti-sommossa, simbolo dell’autorità e dell’ordine costituito. Una contrapposizione ricca di tensione a cui porre fine offrendo a un agente una lattina di Pepsi, per poi esplodere in un momento di gioia liberatoria.
Qualcosa è andato storto. Gli ingredienti che il colosso americano delle bevande gassate aveva mixato nel nuovo ambiziosissimo spot (quasi un cortometraggio) erano stati selezionati con il chiaro scopo di parlare a un pubblico giovane e disincantato come quello dei Millenial, i nati tra gli Anni 80 e i primi Anni 2000: il fascino della starlette televisiva da reality show (Kendall Jenner, sorellastra di Kim Kardashian), la celebrazione di valori universali come la libertà e l’armonia (il corteo è evidentemente multi-etnico), un approccio ideale che non si limita a promuovere il consumo di un prodotto, ma si dimostra piuttosto in linea con lo spirito dei tempi. Eppure qualcosa è andato storto.
La comunicazione aziendale è innanzitutto uno strumento per mantenere i propri stakeholder costantemente informati sui risultati conseguiti dalla società e sugli obiettivi che ne guidano l’azione. Tra questi portatori di interesse, i dipendenti tendono spesso a non essere ritenuti prioritari: se l’obiettivo è ingaggiare e farsi conoscere, le attività di comunicazione alla forza lavoro appaiono quasi scontate, se non superflue.
Non solo un posto di lavoro. Eppure il coinvolgimento dei propri dipendenti ha assunto negli ultimi anni una valenza tutta nuova: non si sceglie un posto di lavoro esclusivamente perché ritenuto redditizio o funzionale a una buona carriera, poiché ci si concentra sempre più anche sul contesto nel quale si svolgerà la propria vita lavorativa. Quali sono i valori alla base della mission aziendale? In che modo una società ha concretizzato l’impegno per la sostenibilità delle proprie attività? Quali sono i criteri per valutare la performance di un dipendente? Inviare un cv a un’azienda può cambiare la vita, per questo è necessario fornire tutte queste informazioni in modo chiaro ed efficace, sia a chi varca la soglia della nostra società per la prima volta sia a chi lo fa da molti anni.
Uno degli elementi più dirompenti della comunicazione di Donald Trump è sicuramente la disinvoltura con cui ha sempre utilizzato il proprio account Twitter. Un account privato (@realdonaldtrump) aperto nel lontano 2009, anno in cui pochi avrebbero scommesso sull’immobiliarista newyorchese come probabile inquilino della Casa Bianca. È da quello stesso account, oggi seguito da 26,1 milioni di follower, che il Comandante delle Forze Armate dell’unica superpotenza a livello globale si scaglia sdegnoso contro i propri avversari politici, prende in giro i media che lo criticano, attacca senza filtri aziende colpevoli di non aderire alla sua visione neo-protezionista e americanocentrica dell’economia. Mettiamoci nei panni del responsabile comunicazione di una di queste aziende: come reagire alla scomunica presidenziale via Twitter?
Un account con potenziale da record. Partiamo da un dato non di poco conto: l’account di Donald Trump non è un profilo qualsiasi. Al di là del discutibile e aggressivo contenuto di molti dei suoi tweet, a colpire è la straordinaria capacità di amplificazione di cui essi sono dotati. Il sito web BuzzFeed ha cercato recentemente di inquadrare con i numeri «cosa accade quando Trump twitta». Anche l’ex immobiliarista utilizza nei suoi tweet Bitly, uno strumento che permette di risparmiare caratteri accorciando i link che vengono inclusi nel cinguettio ed è perciò possibile ricostruire click che vengono effettivamente catturati da quel link. Quando Trump ha di recente pubblicato il riferimento a un sondaggio in cui la sua Amministrazione risultava più credibile dei media statunitensi, più di 678 mila utenti sono atterrati su quella pagina proprio cliccando il tweet, 78.411 solo nella prima ora. Un esempio per toccare con mano la potenza sui social media del presidente? La discussa star dei reality show Kim Kardashian può vantare il doppio dei follower, ma un link in un suo tweet può generare in alcuni casi anche meno di 3000 click. Politica batte reality show, anche sul web.
Quando comunichiamo, l’efficacia del nostro messaggio è determinata da un insieme di fattori. Uno di questi è sicuramente la fiducia di cui gode presso il ricevente il soggetto che dirama quella comunicazione e che fa leva su un capitale reputazionale costruito nel tempo ma costantemente a rischio. Cerchiamo però di ampliare l’orizzonte e di porci un interrogativo più generale: quali sono gli attori sociali che godono del maggior livello di fiducia? E perché ciò avviene?
Uno studio su 33mila persone. Ci aiuta l’Edelman Trust Barometer, uno studio annuale condotto in 28 Paesi su oltre 33mila persone, presentato il 6 febbraio alla Camera dei deputati dall’amministratore delegato per l’Italia dell’agenzia Edelman Fiorella Passoni. Il risultato è in rosso anche quest’anno: l’indice si è contratto di altri tre punti (da 50 a 47) e il trend negativo è stato registrato in 21 dei 28 Paesi esaminati dall’agenzia di relazioni pubbliche.
Risale al 16 febbraio 2017 la pubblicazione sulla pagina personale del fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, di un lungo post ad alto contenuto politico, subito etichettato come il “manifesto programmatico” dell’amministratore delegato del social media più amato al mondo. Manifesto o no, l’appello di Zuckerberg (quasi 6 mila parole) è denso di concetti e buoni propositi illustrati alla grande famiglia degli utenti Facebook proprio con l’intento di «costruire una comunità globale».
Contro gli anti-globalizzazione. La dichiarazione d’intenti dell’ex ragazzo prodigio di Harvard non è passata inosservata. Molti esperti si sono divertiti ad analizzare il suo appello denunciandone la vaghezza o richiamando l’attenzione sull’uso insistente del concetto di «infrastruttura sociale» per descrivere il ruolo di Facebook. Altri ne hanno criticato il generico progressivismo e il velato riferimento agli avversari della globalizzazione, senza però fare nomi e cognomi.
L’economia è onnipresente sulle pagine dei quotidiani e nei servizi dei telegiornali, persino nel variegato mondo dei social media. Quanti di noi seguono su Twitter economisti di fama o esperti di finanza che, con teorie più o meno mainstream, cercano di convincere i propri follower?
Tutto passa dall’economia. Un editoriale del Financial Times, scritto magari da una delle firme di punta, è in grado di scatenare in Italia un dibattito politico che dura giorni ed è sui dati economici più rilevanti (disoccupazione, crescita del Pil, debito pubblico, spread) che si consumano gli scontri più accesi tra i partiti e tra governo e opposizione. Inevitabile che ciò accada in un periodo storico contraddistinto da una crisi che sembra non passare e dalla tendenza politica ad attaccare le ricette economiche più consolidate (vedere alla voce Donald Trump). Come possono le istituzioni, la politica e i media rispondere agli interrogativi che la società pone loro?
Dopo essere state associate alla vittoria dei sostenitori della Brexit nel Regno Unito ed essere diventate uno degli argomenti più dibattuti durante la campagna elettorale per la presidenza degli Stati Uniti, le bufale rischiano di essere le autentiche protagoniste anche nelle elezioni 2017 in Francia e in Germania. Due contesti politici completamente differenti, ma che presentano rischi molto simili: da una parte la contesa per sostituire il presidente uscente François Hollande sta assumendo contorni sempre più controversi e inaspettati, mentre a Berlino la Cancelliera Angela Merkel corre per il quarto mandato con il peso di scelte politiche molto dibattute, come l’apertura del suo Paese ai rifugiati.
Dibattito inquinato. È proprio su argomenti di così facile presa sull’opinione pubblica (presunti incidenti a sfondo religioso oppure ondate di crimini collegate alla presenza di stranieri) che proliferano le notizie false, inquinando pericolosamente un dibattito che dovrebbe riguardare solo fatti verificati e problemi certi.
Mentre il nostro profilo social di riferimento rimane, almeno per la maggior parte di noi, quello su Facebook e il neo presidente degli Stati Uniti Donald Trump continua imperterrito a utilizzare il suo account su Twitter come strumento di lotta politica, ci sono altri due esempi di social network da tenere d’occhio: Instagram e Snapchat.
Sempre più utenti. Il primo, basato sulla condivisione di immagini tratte dalla nostra vita quotidiana, si sta diffondendo sempre più anche tra gli utenti italiani (oltre 9 milioni, secondo quanto dichiarato a febbraio 2016 dal fondatore della piattaforma in visita in Italia), mentre il secondo ha ormai conquistato uno zoccolo duro di giovanissimi fan (il 44% degli italiani su Snapchat ha tra i 13 ei 17 anni) che postano quotidianamente spezzoni della loro vita quotidiana. Brevi video che si auto-distruggono e che permettono di raccontare in modo simpatico e con filtri auto-ironici i momenti, importanti ma anche banali, della propria giornata. Lo stesso video condivisibile anche tramite le Instagram story, per un tempo limitato, con i follower che già seguono le nostre immagini.
Se due app mettono a disposizione la stessa tipologia di servizio è naturale che alcuni degli utilizzatori decidano consapevolmente di migrare da una piattaforma all’altra o di sospendere l’uso di una delle due. Lo ha spiegato molto bene il sito specializzato TechCrunch mettendo in fila i numeri che confermerebbero un momentaneo declino di Snapchat a seguito dell’introduzione delle Instagram story: una novità lanciata nell’estate 2016 e che, secondo alcuni addetti ai lavori consultati dal sito, avrebbe portato a una contrazione dei video caricati su Snapchat di un range dal 15 al 40%.
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