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L’immigrazione è una sfida anche per la comunicazione

Il tema dei migranti non è certo una novità delle ultime settimane, ma come ogni estate si avvia a essere uno degli argomenti di maggior rilievo per l’opinione pubblica. L’Italia, posta al centro del Mar Mediterraneo e affacciata sul continente africano, è per ovvie ragioni investita direttamente da quello che è ormai un fenomeno di portata globale e che va affrontato in quanto tale. Abbiamo tutti seguito sui giornali la dialettica, spesso intensa, che si sviluppa tra Roma e gli altri Stati membri dell’Unione europea, restii a farsi carico di un problema che appare ancora esclusivo appannaggio dei Paesi mediterranei. Ai «no, grazie» di molti governi della Ue, invitati a rispettare i propri impegni in materia di redistribuzione dei rifugiati, è seguito il confronto molto duro avvenuto all’ultimo vertice informale dei ministri degli Interni a Tallinn, durante il quale il ministro degli Interni Marco Minniti ha tentato di convincere gli omologhi europei ad aprire i propri porti a quanti sbarcano stremati sulle coste della “Fortezza Europa”.

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La sublime rivoluzione comunicativa di Navarro Valls

La scomparsa di Joaquín Navarro Valls, lo scorso 5 luglio, ha colto un po’ tutti di sorpresa. Da tempo lo storico portavoce di papa Giovanni Paolo II non era più un volto abituale per i telespettatori, i giornalisti e tutti coloro che seguono l’affascinante vita vaticana e del Pontefice. Venuto a mancare il Papa comunicatore anche Navarro-Valls ha fatto lentamente un passo indietro, nonostante il ricordo di quegli anni straordinari di pontificato sia rimasto impresso nel cuore e nella mente di milioni di persone in tutto il mondo. Giovanni Paolo II è stato il Papa della lotta indomita in favore della libertà e contro ogni forma di oppressione, a partire da quella che gravava sulla sua Polonia e sui Paesi allora controllati dall’Unione Sovietica. Il Papa delle grandi adunate, instancabile nei suoi viaggi apostolici da un lato all’altro del pianeta, costantemente impegnato per parlare a tutti, a partire dai giovani. Senza rincorrere il consenso, cosa innaturale per un grande leader religioso, ma diffondendo un messaggio la cui forza viene ulteriormente moltiplicata dalla dimestichezza con i mezzi di comunicazione adottati.

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Avviso ai comunicatori: l’insidia del nostro tempo è l’iper-modernità

Di sondaggi ne leggiamo molti e di tutti i tipi, sia politici sia di opinione. Una rilevazione condotta nell’ambito di una determinata categoria professionale può essere però particolarmente utile per testare la rilevanza di alcuni fenomeni e valutare la visione delle tematiche strategiche per l’evoluzione del “mestiere”. Un mestiere, quello del comunicatore, che è al centro dello European Communication Monitor (Ecm), di cui è stata diffusa in questi giorni l’edizione 2017. Lo studio si basa sulle risposte di 3.387 professionisti senior dei principali Paesi europei e fornisce uno spaccato interessante dell’orientamento dei comunicatori relativamente ai trend che contraddistinguono il nostro mondo.

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L’importanza della comunicazione visuale. Partiamo da uno degli argomenti che sembra essere ormai tra quelli dominanti: la comunicazione visuale. Il consenso sulla sua importanza raggiunge percentuali bulgare: circa il 95% dei colleghi ritiene infatti che la capacità di rendere visualizzabili i contenuti sia determinante per il successo delle attività di comunicazione. Una consapevolezza, dichiarano gli intervistati, che deriva anche dalle crescenti richieste dei propri interlocutori, che negli ultimi tre anni hanno visto aumentare esponenzialmente il bisogno di ricorrere a immagini e infografiche, ma anche a video da caricare online e fotografie facilmente condivisibili. C’è solo un problema: solo il 4,6% dei professionisti ha già messo in atto processi manageriali che permettano di gestire questo tipo di attività e solo uno su 10 ritiene di aver sviluppato competenze in questo campo.

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Informazione a prova di social network, guida per sopravvivere

Il rapporto tra grandi gruppi editoriali e social media è da tempo sotto i riflettori. Accantoniamo una volta per tutte le rivendicazioni delle due parti e le “nostalgie” di comodo. Tornare indietro di 20 anni è impossibile e se c’è un errore che la carta stampata (e i media in generale) non possono permettersi di commettere è proprio quello di limitarsi a “contenere i danni” sperando che la tempesta finisca.

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Il ciclo della rete cannibalizza. La tempesta non finirà perché è il contesto a essere drammaticamente cambiato, scardinando abitudini di consumo consolidate e sottoponendo i contenuti editoriali alla pressione del ciclo informativo della Rete e alla moltiplicazione dei canali. Con un elemento interessante in più: oggi anche i social network e i nuovi giganti della Silicon Valley si interrogano sempre più frequentemente sul loro ruolo nella società. Perché un peso maggiore in economia comporta anche la responsabilità di definire una visione e di identificare una mission coerente con i propri obiettivi.

Partiamo dal futuro dell’editoria. Sono stati scritti fiumi di inchiostro sulla “morte dei giornali” e sulle difficoltà attraversate da storici gruppi editoriali in Italia e all’estero. Liberiamoci subito da un preconcetto: aprire le porte al digitale non è per forza di cose l’elisir di lunga vita. Quello che conta davvero è piuttosto la capacità di valorizzare la storia e l’autorevolezza della testata per farne il punto di forza di una strategia di diffusione dei contenuti che mixi la carta stampata, il sito web, la versione digitale e i social media.

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Gli italiani e la radio: una passione sempre viva

Le app sul nostro smartphone sono uno strumento a portata di mano, che consultiamo quotidianamente in cerca di qualsiasi cosa: dalle news dell’ultima ora alle previsioni del tempo, dalla nostra canzone preferita all’andamento in Borsa dei titoli. Eppure c’è un mezzo, molto più antico dei nostri cellulari, che è in grado di sostituire in un colpo solo tutte queste applicazioni: la cara vecchia radio.

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Tradizione e innovazione. L’ultimo rapporto Censis (2016) fotografa efficacemente quello che definisce il «boom del digitale»: nel corso degli ultimi 10 anni gli utenti di internet nel nostro Paese sono passati da meno della metà a quasi tre quarti della popolazione, complice l’inarrestabile diffusione degli smartphone. Come prevedibile, si mantiene tuttora incontrastata la leadership della televisione (che raggiunge oltre il 97% degli italiani), accompagnata dal declino della carta stampata (solo 40%). Tradizione non si associa però a inevitabile ridimensionamento del ruolo: con un’utenza complessiva pari all’83,9% degli italiani, la radio si conferma infatti scelta irrinunciabile per un bacino di ascoltatori in cui il ricorso agli apparecchi tradizionali è in aumento (+4,8% in un anno). Una passione, quella per la radio, che viene ulteriormente rafforzata dall’avvento del digitale: non stupisce che la crescita complessiva dell’utenza da smartphone, per esempio, sia stata pari, nel periodo 2007-2016, al +13,7%. Anche l’ascolto della radio su internet via computer ha registrato un balzo del +6,9% nello stesso periodo, a ulteriore dimostrazione che i nuovi mezzi non distruggono i vecchi, ma possono potenziarne il raggio d’azione grazie alle nuove tecnologie.

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Non c’è futuro per le aziende senza cultura della sostenibilità

Le attività di corporate social responsibility sono ormai stabilmente inglobate nel perimetro di numerose aziende italiane e internazionali, tanto che l’idea stessa di “responsabilità” nei confronti dei contesti nei quali si opera sembra quasi un concetto da dare per scontato. Lo troviamo ripetuto nelle presentazioni corporate, nei siti aziendali, nei comunicati stampa, sui canali social. Un recente sondaggio realizzato dal gruppo PagineSì! su un campione di 500 clienti conferma che il 56% delle aziende intervistate sono impegnate in attività legate in qualche modo alla responsabilità sociale.sdg_1

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Instagram e utenti divisi per età: il trucco social per i politici

Di comunicazione politica e di utilizzo dei social media nelle campagne elettorali abbiamo discusso di frequente negli ultimi mesi, analizzando i casi degli Stati Uniti, della Francia e ora del Regno Unito. Ma se dovessimo scattare una fotografia delle abitudini degli italiani sul web, quale sarebbe il risultato? Al netto dell’interesse sociologico e di cronaca, studiare come si comportano i nostri concittadini quando navigano quotidianamente sui social media è fondamentale per qualsiasi tipo di comunicazione, soprattutto quella politica.

 

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Emozioni, Instagram e Facebook: la May che non ti aspetti

Dopo le grandi sorprese del referendum britannico per l’uscita dall’Unione europea e della vittoria di Donald Trump alle presidenziali degli Stati Uniti, il 2017 ci ha riservato finora una serie altrettanto inaspettata di risultati elettorali: il successo del candidato ecologista alle presidenziali austriache, la sconfitta del leader xenofobo Wilders nei Paesi Bassi, il trionfo dell’indipendente Emmanuel Macron in Francia. L’attenzione si concentra ora sulla consultazione che deve decidere l’inquilino del numero 10 di Downing Street, leader a cui spetta il difficile compito di accompagnare il Paese verso la definitiva “Brexit”. Una sfida, quella dell’8 giugno 2017, che si gioca tra la conservatrice Theresa May e il laburista Jeremy Corbyn anche sul web.

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Con la cultura non si mangia? In azienda può fare la differenza

Il termine “Corporate social responsibility”, spesso abbreviato sbrigativamente in Csr, è entrato ormai stabilmente nel lessico manageriale e dei media. Un’espressione che indica tutte quelle attività che un’azienda mette in campo nell’ottica di creare valore per il contesto sociale in cui opera, sia in termini di iniziative per il pubblico sia di autentici investimenti di medio-lungo termine. Un concetto che può essere però declinato ulteriormente in modo da mettere in evidenza l’impatto sociale di una categoria particolare di investimenti: quelli in ambito culturale. La base su cui fondare una “Corporate cultural responsibility” (Ccr).

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Settore poco sfruttato. Sono stati scritti litri di inchiostro sul tema della cultura come fattore di sviluppo del nostro Paese, dotato di un patrimonio culturale e paesaggistico che non ha eguali a livello globale. Ciononostante, è ancora difficile valutare le risorse che un’azienda decide di destinare alla cultura con gli stessi parametri che utilizziamo normalmente per i fondi impiegati in altre aree, come l’ambiente.

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La rivoluzione di Macron: essere leader, non “normale” come noi

Ora che il giovane Emmanuel Macron è diventato a sorpresa l’ottavo presidente della Quinta Repubblica francese è interessante fare qualche riflessione sull’immagine di questo giovanissimo ex ministro con un passato di banchiere e una formazione nelle scuole d’élite del Paese. Macron, di estrazione borghese e con un percorso professionale di altissimo livello, ha infatti sconfitto la candidata che ambiva a rappresentare il “popolo” francese tradito dalle false promesse della globalizzazione, Marine Le Pen. Lasciando da parte etichette abusate come “populismo”, la domanda che sorge spontanea è la seguente: cosa è più vincente oggi? Dimostrare la capacità di guidare un Paese grazie alle proprie competenze o fare di tutto per sembrare “normali” e nella media?

2017-05-10

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