Ho scritto sulla differenza tra il modo di fare lobby in Europa e negli Stati Uniti e ho lanciato più volte un appello per istituire una regolamentazione chiara ed efficace della “rappresentanza di interessi” nel nostro Paese.
A tentare di fare luce sullo stato dell’arte delle politiche in materia di lobbying in Europa ci ha pensato Transparency International, think tank che fa della «lotta alla corruzione in un’ottica internazionale» la sua missione.
A settembre 2014 ho parlato della necessità di mettere mano alla legge sulle lobby, augurandomi che il presidente del Consiglio Matteo Renzi riuscisse a cogliere quell’obiettivo già mancato dai suoi predecessori Romano Prodi, Mario Monti ed Enrico Letta e già raggiunto da molti Paesi nel mondo.
Il tempo era scaduto da un pezzo, ma niente è cambiato da allora. I legittimi portatori di interessi continuano a essere scambiati per faccendieri, opportunisti delle relazioni, professatori del «faccio cose, vedo gente».
LOBBY CON REGOLE PRECISE. La volgata del «Ah Fra’, che te serve?» rovina la reputazione di una categoria di seri professionisti, che porta avanti un mestiere con regole precise, strumenti leciti e sforzi per raggiungere gli obiettivi dei clienti rappresentati, nel mentre cresce l’attenzione anche di gruppi internazionali e delle importanti firm americane per il mercato della lobby europea e italiana.
Fino alla fine degli Anni 70 la comunicazione politica è stata ancillare e subordinata nelle organizzazioni politiche.
L’intuizione dei leader era spesso il canovaccio seguito dagli staff di comunicazione per la produzione di volantini e materiali elettorali, senza che questi potessero apportare alcun valore aggiunto nella pianificazione e progettazione dei messaggi da veicolare.
Lo sviluppo della comunicazione politica degli ultimi 30 anni in Italia è cosa nota, basti pensare alla svolta che Silvio Berlusconi nel 94 ha inferto ai partiti della prima Repubblica, o al cambiamento imposto dallo stile dialettico di Matteo Renzi.
LE ELEZIONI INGLESI DEL ’79. Il loro modo di comunicare si è differenziato, e si differenzia, per un registro comunicativo che per certi versi è più vicino agli slogan pubblicitari che alla tradizionale retorica in politichese.
Ma, se guardiamo alla storia delle campagne elettorali oltremanica, ci accorgiamo che la pubblicità e il linguaggio adv-friendly ha fatto la sua comparsa già nel 1979, nella famosa quanto storica campagna di Margaret Thatcher.
L’analisi del discorso pronunciato ieri in Parlamento dal presidente Mattarella rivela come l’intera costruzione linguistica ruoti intorno a due concetti fondamentali, sottolineati dall’utilizzo dell’anafora, una figura retorica che consiste nel riprendere, ripetendola, una parola o un’espressione all’inizio della frase.
Si tratta di una figura retorica che produce due effetti. Innanzitutto quello di conferire gravità al discorso: già i retori antichi lo consideravano uno strumento che produce venustas, gravitas e acrimonia, ovvero bellezza estetica ma anche serietà e forza. Mattarella pronuncia dunque un discorso che è in linea con il momento difficile che attraversa il Paese. Ma l’anafora ha anche un altro effetto, è una figura della presenza, che serve a rendere presente l’oggetto di discussione nella coscienza dei partecipanti. In altre parole ne rafforza la rilevanza.
Quali sono, dunque, i concetti che il Presidente Mattarella intende sottolineare? Il primo è il significato della Costituzione. Non a caso la parola più ripetuta è “significa” (16 volte) e la seconda è Costituzione (9), che vengono usate insieme in una ripetizione anaforica:
«Garantire la Costituzione significa garantire il diritto allo studio/ riconoscere e rendere effettivo il diritto al lavoro/ garantire i diritti dei malati».
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