«E se, disintermediando disintermendiando, fosse divenuto superato lo spin doctor? Una provocazione». Il tweet di @Nomfup compare poco prima dell’ora di pranzo di un sabato agostano ed è subito dibattito. Nomfup (Not my fucking problem, dalla celebre serie tv inglese The Thick of it)…
di Gianluca Comin Sono stati 3 milioni i tweet su argomenti politici in Italia durante gli ultimi 10 giorni della campagna elettorale per le elezioni europee. Lo dimostra il recente rapporto realizzato da Sociometrica (società di consulenza strategica fondata sulla ricerca) e Aida Monitoring (società specializzata in web listening e data analysis)…
Quali sono stati i temi più trattati durante la campagna per le elezioni europee. Quale leader ha catturato maggiormente l'attenzione degli elettori. Chi ha comunicato di più sui social media e in televisione. Queste sono alcune delle domande a cui…
Il caso Dirty Campaigning sta dominando la campagna elettorale in Austria, dove si vota il prossimo 15 ottobre. Una tornata che, a differenza delle recenti elezioni in Germania, non ha avuto grande risonanza in Italia, con l’eccezione dell’interessante intervista di Paolo Valentino al Cancelliere Christian Kern, pubblicata lo scorso fine settimana sul Corriere della Sera. Eppure lo scandalo innescato dalla scoperta di alcune tattiche diffamatorie adottate sui social media dal team del Partito socialdemocratico (che ha proprio Kern come candidato) rappresentano un interessante caso di studio per chi si occupa di comunicazione elettorale: l’arena digitale è un campo da presidiare in modo strategico, che può rivelarsi però una fonte di rischi per l’immagine pubblica del nostro candidato.
Il caso Sulberstein. A sconvolgere una campagna elettorale che arriva al termine di ripetute elezioni per la Presidenza della Repubblica e alla fine prematura dell’attuale legislatura è stata la scoperta che un consulente dei socialdemocratici, Tal Silberstein, avrebbe scelto di screditare il candidato dei Popolari, il giovane Sebastian Kurz, mettendo in piedi pagine Facebook apertamente denigratorie nei suoi confronti. Silberstein è stato arrestato lo scorso agosto per reati non connessi alla campagna elettorale, ma le rivelazioni di alcuni media austriaci hanno messo di colpo sotto la luce dei riflettori l’aspetto più oscuro dei social media: da amplificatori delle attività “offline” del candidato a trasmettitori di informazioni negative sugli avversari.
Dopo le grandi sorprese del referendum britannico per l’uscita dall’Unione europea e della vittoria di Donald Trump alle presidenziali degli Stati Uniti, il 2017 ci ha riservato finora una serie altrettanto inaspettata di risultati elettorali: il successo del candidato ecologista alle presidenziali austriache, la sconfitta del leader xenofobo Wilders nei Paesi Bassi, il trionfo dell’indipendente Emmanuel Macron in Francia. L’attenzione si concentra ora sulla consultazione che deve decidere l’inquilino del numero 10 di Downing Street, leader a cui spetta il difficile compito di accompagnare il Paese verso la definitiva “Brexit”. Una sfida, quella dell’8 giugno 2017, che si gioca tra la conservatrice Theresa May e il laburista Jeremy Corbyn anche sul web.
Ora che il giovane Emmanuel Macron è diventato a sorpresa l’ottavo presidente della Quinta Repubblica francese è interessante fare qualche riflessione sull’immagine di questo giovanissimo ex ministro con un passato di banchiere e una formazione nelle scuole d’élite del Paese. Macron, di estrazione borghese e con un percorso professionale di altissimo livello, ha infatti sconfitto la candidata che ambiva a rappresentare il “popolo” francese tradito dalle false promesse della globalizzazione, Marine Le Pen. Lasciando da parte etichette abusate come “populismo”, la domanda che sorge spontanea è la seguente: cosa è più vincente oggi? Dimostrare la capacità di guidare un Paese grazie alle proprie competenze o fare di tutto per sembrare “normali” e nella media?
I momenti migliori della nostra vita sono anche quelli che scegliamo di immortalare attraverso l’obiettivo di una macchina fotografica. Questo vale per tutti, sia per il nostro vissuto privato sia per quello professionale. Non mi stancherò mai di ripetere che una componente fondamentale dell’immagine del top management di una società è anche rappresentata dai materiali fotografici che mettiamo a disposizione del pubblico. Il ritratto ufficiale dell’amministratore delegato, le fotografie che testimoniano la sua partecipazione a convegni o a momenti importanti per l’azienda sono un patrimonio a cui possono attingere i media e chiunque navighi sul sito web corporate. Un’attenzione per la cura della propria immagine che vale ancora di più per le figure che ricoprono importanti ruoli istituzionali.
Il passaggio al secondo turno delle elezioni presidenziali francesi del candidato centrista e filoeuropeista Emmanuel Macron e della leader dell’estrema destra Marine LePen è sicuramene l’evento politico più discusso degli ultimi giorni. Non spetta a me fare valutazioni di carattere politico, quanto piuttosto cercare di capire quali “lezioni” possiamo trarre: dall’ambito digitale ai vituperati sondaggi, passando per il nuovo modo di raccontare un appuntamento elettorale così cruciale e denso di incognite.
Non solo “mi piace”. Sembra un’affermazione scontata, eppure in molti casi tendiamo ancora a considerare i social media come qualcosa di accessorio, utile solo per lo stuolo di “smanettoni” che non verrebbero raggiunti con i mezzi più tradizionali. Innanzitutto, è bene precisare una volta in più che una presenza forte e incisiva sui social network ha un’importanza che va ben oltre la contabilità dei “mi piace”. I contenuti che diffondiamo su Facebook o su Twitter sono parte integrante della nostra comunicazione giornaliera e un tassello fondamentale dell’immagine del candidato.
Uno degli elementi più dirompenti della comunicazione di Donald Trump è sicuramente la disinvoltura con cui ha sempre utilizzato il proprio account Twitter. Un account privato (@realdonaldtrump) aperto nel lontano 2009, anno in cui pochi avrebbero scommesso sull’immobiliarista newyorchese come probabile inquilino della Casa Bianca. È da quello stesso account, oggi seguito da 26,1 milioni di follower, che il Comandante delle Forze Armate dell’unica superpotenza a livello globale si scaglia sdegnoso contro i propri avversari politici, prende in giro i media che lo criticano, attacca senza filtri aziende colpevoli di non aderire alla sua visione neo-protezionista e americanocentrica dell’economia. Mettiamoci nei panni del responsabile comunicazione di una di queste aziende: come reagire alla scomunica presidenziale via Twitter?
Un account con potenziale da record. Partiamo da un dato non di poco conto: l’account di Donald Trump non è un profilo qualsiasi. Al di là del discutibile e aggressivo contenuto di molti dei suoi tweet, a colpire è la straordinaria capacità di amplificazione di cui essi sono dotati. Il sito web BuzzFeed ha cercato recentemente di inquadrare con i numeri «cosa accade quando Trump twitta». Anche l’ex immobiliarista utilizza nei suoi tweet Bitly, uno strumento che permette di risparmiare caratteri accorciando i link che vengono inclusi nel cinguettio ed è perciò possibile ricostruire click che vengono effettivamente catturati da quel link. Quando Trump ha di recente pubblicato il riferimento a un sondaggio in cui la sua Amministrazione risultava più credibile dei media statunitensi, più di 678 mila utenti sono atterrati su quella pagina proprio cliccando il tweet, 78.411 solo nella prima ora. Un esempio per toccare con mano la potenza sui social media del presidente? La discussa star dei reality show Kim Kardashian può vantare il doppio dei follower, ma un link in un suo tweet può generare in alcuni casi anche meno di 3000 click. Politica batte reality show, anche sul web.
Risale al 16 febbraio 2017 la pubblicazione sulla pagina personale del fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, di un lungo post ad alto contenuto politico, subito etichettato come il “manifesto programmatico” dell’amministratore delegato del social media più amato al mondo. Manifesto o no, l’appello di Zuckerberg (quasi 6 mila parole) è denso di concetti e buoni propositi illustrati alla grande famiglia degli utenti Facebook proprio con l’intento di «costruire una comunità globale».
Contro gli anti-globalizzazione. La dichiarazione d’intenti dell’ex ragazzo prodigio di Harvard non è passata inosservata. Molti esperti si sono divertiti ad analizzare il suo appello denunciandone la vaghezza o richiamando l’attenzione sull’uso insistente del concetto di «infrastruttura sociale» per descrivere il ruolo di Facebook. Altri ne hanno criticato il generico progressivismo e il velato riferimento agli avversari della globalizzazione, senza però fare nomi e cognomi.
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