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I tweet incendiari di Trump? Una opportunità per chi è attaccato

Uno degli elementi più dirompenti della comunicazione di Donald Trump è sicuramente la disinvoltura con cui ha sempre utilizzato il proprio account Twitter. Un account privato (@realdonaldtrump) aperto nel lontano 2009, anno in cui pochi avrebbero scommesso sull’immobiliarista newyorchese come probabile inquilino della Casa Bianca. È da quello stesso account, oggi seguito da 26,1 milioni di follower, che il Comandante delle Forze Armate dell’unica superpotenza a livello globale si scaglia sdegnoso contro i propri avversari politici, prende in giro i media che lo criticano, attacca senza filtri aziende colpevoli di non aderire alla sua visione neo-protezionista e americanocentrica dell’economia. Mettiamoci nei panni del responsabile comunicazione di una di queste aziende: come reagire alla scomunica presidenziale via Twitter?

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Un account con potenziale da record. Partiamo da un dato non di poco conto: l’account di Donald Trump non è un profilo qualsiasi. Al di là del discutibile e aggressivo contenuto di molti dei suoi tweet, a colpire è la straordinaria capacità di amplificazione di cui essi sono dotati. Il sito web BuzzFeed ha cercato recentemente di inquadrare con i numeri «cosa accade quando Trump twitta». Anche l’ex immobiliarista utilizza nei suoi tweet Bitly, uno strumento che permette di risparmiare caratteri accorciando i link che vengono inclusi nel cinguettio ed è perciò possibile ricostruire click che vengono effettivamente catturati da quel link. Quando Trump ha di recente pubblicato il riferimento a un sondaggio in cui la sua Amministrazione risultava più credibile dei media statunitensi, più di 678 mila utenti sono atterrati su quella pagina proprio cliccando il tweet, 78.411 solo nella prima ora. Un esempio per toccare con mano la potenza sui social media del presidente? La discussa star dei reality show Kim Kardashian può vantare il doppio dei follower, ma un link in un suo tweet può generare in alcuni casi anche meno di 3000 click. Politica batte reality show, anche sul web.

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La comunicazione politica di Zuckerberg, bei proclami per non pagare le tasse?

Risale al 16 febbraio 2017 la pubblicazione sulla pagina personale del fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, di un lungo post ad alto contenuto politico, subito etichettato come il “manifesto programmatico” dell’amministratore delegato del social media più amato al mondo. Manifesto o no, l’appello di Zuckerberg (quasi 6 mila parole) è denso di concetti e buoni propositi illustrati alla grande famiglia degli utenti Facebook proprio con l’intento di «costruire una comunità globale».

Contro gli anti-globalizzazione. La dichiarazione d’intenti dell’ex ragazzo prodigio di Harvard non è passata inosservata. Molti esperti si sono divertiti ad analizzare il suo appello denunciandone la vaghezza o richiamando l’attenzione sull’uso insistente del concetto di «infrastruttura sociale» per descrivere il ruolo di Facebook. Altri ne hanno criticato il generico progressivismo e il velato riferimento agli avversari della globalizzazione, senza però fare nomi e cognomi.

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Come sopravvivere alle fake news in campagna elettorale

Dopo essere state associate alla vittoria dei sostenitori della Brexit nel Regno Unito ed essere diventate uno degli argomenti più dibattuti durante la campagna elettorale per la presidenza degli Stati Uniti, le bufale rischiano di essere le autentiche protagoniste anche nelle elezioni 2017 in Francia e in Germania. Due contesti politici completamente differenti, ma che presentano rischi molto simili: da una parte la contesa per sostituire il presidente uscente François Hollande sta assumendo contorni sempre più controversi e inaspettati, mentre a Berlino la Cancelliera Angela Merkel corre per il quarto mandato con il peso di scelte politiche molto dibattute, come l’apertura del suo Paese ai rifugiati.

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Dibattito inquinato. È proprio su argomenti di così facile presa sull’opinione pubblica (presunti incidenti a sfondo religioso oppure ondate di crimini collegate alla presenza di stranieri) che proliferano le notizie false, inquinando pericolosamente un dibattito che dovrebbe riguardare solo fatti verificati e problemi certi.

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Instagram e Snapchat, la sfida più calda del panorama social

Mentre il nostro profilo social di riferimento rimane, almeno per la maggior parte di noi, quello su Facebook e il neo presidente degli Stati Uniti Donald Trump continua imperterrito a utilizzare il suo account su Twitter come strumento di lotta politica, ci sono altri due esempi di social network da tenere d’occhio: Instagram e Snapchat.

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Sempre più utenti. Il primo, basato sulla condivisione di immagini tratte dalla nostra vita quotidiana, si sta diffondendo sempre più anche tra gli utenti italiani (oltre 9 milioni, secondo quanto dichiarato a febbraio 2016 dal fondatore della piattaforma in visita in Italia), mentre il secondo ha ormai conquistato uno zoccolo duro di giovanissimi fan (il 44% degli italiani su Snapchat ha tra i 13 ei 17 anni) che postano quotidianamente spezzoni della loro vita quotidiana. Brevi video che si auto-distruggono e che permettono di raccontare in modo simpatico e con filtri auto-ironici i momenti, importanti ma anche banali, della propria giornata. Lo stesso video condivisibile anche tramite le Instagram story, per un tempo limitato, con i follower che già seguono le nostre immagini.

Se due app mettono a disposizione la stessa tipologia di servizio è naturale che alcuni degli utilizzatori decidano consapevolmente di migrare da una piattaforma all’altra o di sospendere l’uso di una delle due. Lo ha spiegato molto bene il sito specializzato TechCrunch mettendo in fila i numeri che confermerebbero un momentaneo declino di Snapchat a seguito dell’introduzione delle Instagram story: una novità lanciata nell’estate 2016 e che, secondo alcuni addetti ai lavori consultati dal sito, avrebbe portato a una contrazione dei video caricati su Snapchat di un range dal 15 al 40%.

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Il bersagliato spot Rai su Sanremo un senso (sotto sotto) ce l’ha

Potrebbe sembrare quasi un paradosso: come comunicare se si è responsabili delle attività di comunicazione di un grande network televisivo o di una media company? Le sfide sono esattamente le stesse a cui deve far fronte un’azienda tradizionale: valorizzare i propri punti di forza, raccontare i successi, stabilire un rapporto costruttivo e di fiducia con il mondo dell’informazione, dialogare in modo efficace con gli stakeholder più rilevanti e garantire che le risorse interne siano coinvolte.

pubblicita-sanremo-fetiMix di linguaggi diversi. Guardiamo, per esempio, al caso della Rai e a come stanno evolvendo le strategie comunicative della tivù di Stato guidata da Antonio Campo Dall’Orto e dalla squadra della comunicazione di Giovanni Parapini. Essere servizio pubblico, indubbiamente, comporta l’adozione di uno stile diverso (più istituzionale e in linea con la sensibilità del Paese), ma non per questo rigido o poco innovativo. Quello che fa la differenza è sempre la capacità di dosare linguaggi diversi, mixando strumenti di comunicazione senza perdere mai il gusto per la sperimentazione.

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Svolta digitale della carta e nuovi ruoli dei social: le news cambiano

Il dibattito sulla post-verità e sulla pericolosità delle bufale ci ha accompagnato nel passaggio al 2017, dopo 12 mesi che hanno sconvolto in modo imprevedibile il mondo che ci circonda. Facciamo però un passo indietro, prima di farci risucchiare nella discussione su quanto le notizie false e le affermazioni prive di ogni fondamento abbiano agevolato la vittoria dell’eccentrico Donald Trump, pronto a prendere possesso della Casa Bianca venerdì 20 gennaio. Perché se è di notizie che stiamo parlando, dovremmo innanzitutto capire da dove le ricaviamo nella nostra vita quotidiana. L’informazione è ovunque: dal nostro cellulare a uno schermo in metropolitana, dalla rivista patinata alla timeline dei nostri profili social.

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Nell’era della post-verità restituiamo valore alla tivù

Non è stato certo l’autorevole parere dell’Oxford Dictionary a convincerci che viviamo in un’epoca in cui domina il pericolo della disinformazione, amplificato dalla dirompente moltiplicazione di canali e dal proliferare delle piattaforme da cui attingiamo quotidianamente notizie. Sembra quasi un luogo comune, ma è incredibile pensare che sia possibile seguire i maggiori avvenimenti o cercare di costruire una propria opinione politica anche solo affidandoci distrattamente ai contenuti che le nostre innumerevoli timeline, su Facebook o Twitter, mettono insieme per noi.

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Internet a doppio taglio. Questa facilità di fruizione comporta però molti rischi. Ecco che la “bufala” (o post-verità) diventa qualcosa di tangibile e di insidiosissimo: una pagina web con un nome ambiguo, un portale che sembra rivelare verità che i media mainstream nascondono, post virali che destano l’indignazione di un secondo e si prestano a essere condivisi con la nostra community in un clic. Come disinnescare questo rischio? Ci sono due recenti eventi politici che sembrano aver risvegliato improvvisamente la consapevolezza del problema. Prima dell’estate, la decisione del Regno Unito di “staccarsi” dal Continente uscendo, con modalità ancora tutte da definire, dall’Unione europea. A inizio novembre, l’arrivo del ciclone Donald Trump alla Casa Bianca ha spinto molti ad avanzare dubbi sugli strumenti che il mondo dell’informazione e del web fornisce ai cittadini.

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Grazie Obama: senza di te i social perdono fascino

Nessuno si sorprende più se un giornalista politico cita un tweet o un post Facebook del presidente del Consiglio o di un ministro per indicarne la posizione su un certo tema.
Nel contesto italiano, i social media hanno rappresentato e rappresentano una componente essenziale dell’ascesa e delle successive attività di comunicazione istituzionale del premier Matteo Renzi: basti citare il ruolo iconico delle immagini pubblicate su Instagram dal portavoce Filippo Sensi.

tweet obamaArchivio aperto. Tweet, post e foto che costituiscono una sorta di “archivio” digitale aperto a tutti gli utenti, più accessibile di una normale raccolta ufficiale.
È per questo che alla Casa bianca, ora che la presidenza di Barack Obama è in scadenza, ci si pone il problema di come gestire nel modo più efficace e rispettoso la “transizione digitale”.
Sappiamo tutti quanto sia delicato e appassionante il processo politico-amministrativo che viene attivato nel momento in cui un presidente degli Stati Uniti deve lasciare lo Studio ovale al vincitore delle elezioni di novembre.
Come verrà gestita questa fase sugli account ufficiali dell’amministrazione Obama?

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Fiction, lingua universale per raccontare l’Italia

Se dovessimo indicare il modo più efficace per raccontare l’epoca che stiamo vivendo sceglieremmo con molta probabilità la serie tivù.
Per molti di noi le serie sono diventate una fonte di divertimento e relax, se non di autentica passione da “divorare” nei momenti che preferiamo o seguendo, con maggiore pazienza, la programmazione televisiva.
Una passione che in Italia, Paese di grandi registi e di storici festival cinematografici, ha contagiato anche il Premio Oscar Paolo Sorrentino.

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L’autore de Il Divo e de La Grande Bellezza ha infatti accettato la sfida di mettersi dietro la macchina da presa per dirigere una serie come The Young Pope, con la star Jude Law nei panni di un ambiguo e giovanissimo pontefice che scardina tutte le regole.

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Le sfide degli AD/3 – Costruire l’immagine del CEO tra media e digital

Gli amministratori delegati, soprattutto i fondatori di un’azienda, acquisiscono molto spesso un ruolo quasi iconico. Nell’immaginario dei consumatori, dei giornalisti e, soprattutto, delle risorse interne, la figura dell’ad tende spesso a sovrapporsi con quella dell’azienda.

Un fenomeno che si accentua se le persone ai vertici possono vantare una biografia forte, lo sviluppo di un’idea che ha rivoluzionato un settore, una naturale propensione all’innovazione e al rischio che ha consentito loro di superare le avversità e di essere individuati come un modello di riferimento. Penso a figure che hanno fatto la storia dell’industria italiana come Enrico Mattei, Adriano Olivetti, Michele Ferrero, Vittorio Merloni o a protagonisti conosciuti al grande pubblico come Bernardo Caprotti, Giovanni Rana, Francesco Amadori, Marco Tronchetti Provera, Paolo Scaroni, gli Agnelli e i Benetton.

Certo, molto dipende dal contesto in cui si sviluppa una data idea imprenditoriale e dal settore nel quale opera l’azienda in questione.

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