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Per essere convincenti riscopriamo il potere della nostra voce

Che il potere della voce umana sia superiore, in termini di efficacia ed empatia, a quello della parola scritta sembra fin troppo evidente. Non a caso sono i grandi discorsi di statisti e condottieri, e meno frequentemente le lettere o i libri, a passare alla storia: a volte trascurando il contenuto e tenendo vivo il ricordo solo per via delle emozioni che seppero suscitare negli ascoltatori.

Test su temi molto divisivi. C’è però uno studio interessante che una ricercatrice statunitense, Juliana Schroeder dell’Università della California, ha condotto di recente su alcuni gruppi di volontari per dimostrare la superiore capacità persuasiva della voce rispetto a un testo scritto. Un esperimento che si è guadagnato l’attenzione della redazione del Washington Post, incuriosita dalla modalità con cui è stato organizzato: la Schroeder ha infatti “costretto” 300 persone a guardare, ascoltare e leggere argomentazioni su temi molto divisivi (la guerra, l’aborto, generi musicali di nicchia come il rap e il country), testando le loro reazioni.

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Milano e l’Ema, non tutte le sfortune vengono per nuocere

La cocente delusione, anche per via della modalità del sorteggio, per la scelta di Amsterdam per l’Agenzia Europea del Farmaco è già stata sviscerata a sufficienza sia dai protagonisti della politica, sia dai grandi media. Milano, la “capitale europea” del nostro Paese, sembrava infatti avere tutte le carte in regola per sostituire Londra come sede della prestigiosa istituzione europea, costretta a traslocare dopo la decisione del Regno Unito di uscire dall’Unione Europea. L’Ema, oltre a portare con sé il valore aggiunto di un personale internazionale iper-specializzato e del suo indotto, avrebbe rappresentato per il capoluogo lombardo anche una conferma della leadership in un settore strategico come quello delle scienze della vita e della sua conclamata proiezione verso l’innovazione tecnologica. Come ha giustamente ricordato Paolo Bricco sulle colonne del Sole 24 Ore, il primato di Milano nel campo della farmaceutica è incontestabile: la Lombardia è infatti una delle Regioni-chiave per questo comparto, che a livello nazionale ha 130 mila addetti, 30 miliardi di euro di produzione (21 di export) e 2,7 miliardi di euro di investimenti.

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Per attrarre i talenti non basta il salario

Il lavoro come lo conosciamo oggi verrà presto cambiato in profondità o è già al centro di una rivoluzione che stiamo vivendo senza esserne del tutto consapevoli. Sia che questo accada per il tanto discusso arrivo di robot e altri strumenti che automatizzano sempre più i processi produttivi, sia come risultato di trend economici e sociali legati a cicli storici e al fenomeno della globalizzazione. Se il lavoro cambia, è anche la comunicazione a doversi adeguare in qualche modo al nuovo contesto. Dopotutto, oltre alle nostre attività, comunichiamo innanzitutto il ruolo che ambiamo a ricoprire nel contesto economico-sociale nel quale opera la nostra azienda.

Rete di relazioni e interrelazioni. Andiamo per ordine. La reputazione di un’azienda, che in quanto comunicatori d’impresa siamo chiamati a costruire con un lavoro su più livelli e attraverso diversi canali, non è un monolite statico che deriva dalla somma delle nostre attività, ma piuttosto una rete di relazioni e interazioni che mira a consolidare la fiducia in ciò che facciamo e la credibilità di ciò che diciamo.

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Aziende, raccontate il vostro impegno sociale sul web

Se il responsabile comunicazione di una grande azienda mi dicesse di aver aperto un nuovo sito web corporate gli risponderei dimostrandogli il mio interesse, ma senza esserne troppo stupito. Nel giro di pochi anni è diventato infatti inconcepibile non presidiare il web in modo autorevole, sia curando il costante aggiornamento della pagina ufficiale (e delle sue varie sezioni, a partire da quella dedicata ai clienti e ai media) sia selezionando con cura i social network nei quali si vuole interagire con gli utenti e con gli stakeholder. L’ho ripetuto spesso in questa rubrica: non serve essere dappertutto, ma occorre piuttosto capire come diffondere i nostri contenuti adattandoli alle regole di Facebook, Twitter, LinkedIn o, perché no, anche Telegram.

Sostenibilità fattore chiave. Ho trovato quindi molto stimolante il report stilato da Lundquist sulle attività di comunicazione digitale che riguardano la responsabilità sociale d’impresa. Giunti ormai alla loro settima edizione, i Csr Online Awards sono la dimostrazione di come il ruolo degli operatori economici per il conseguimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile sia ormai un formidabile fattore di competitività anche nella definizione delle attività di comunicazione, soprattutto digitale.

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“Stare sui social”, istruzioni per l’uso

Ci si interroga spesso sull’impatto che i social media hanno avuto negli ultimi anni sui media tradizionali, a partire dalla loro reddittività e dalla capacità di influenzare direttamente l’opinione pubblica. Proprio in questo spazio ho condiviso alcune riflessioni sul processo che il collega Vittorio Meloni ha definito «il crepuscolo dei media» e che è una tendenza da osservare attentamente anche dal punto di vista dei comunicatori d’impresa: se il web appare in grado di assorbire tutti i contenuti e di veicolarli a un’audience potenzialmente sterminata, come ci dobbiamo muovere al momento di selezionare i nostri investimenti in comunicazione? Quali canali sceglieremo per raggiungere i nostri stakeholder di interesse? Il web non può essere l’unica risposta.

Protagonismo ben oltre la firma. A essere inseriti nei social network non sono però solo gli account ufficiali delle nostre testate e delle televisioni, ma anche gli stessi giornalisti che lavorano per questi mezzi di informazione. In un modo totalmente inedito rispetto al passato, il singolo operatore acquisisce un protagonismo che va ben oltre la firma di un pezzo su un quotidiano o la conduzione di un telegiornale.

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Da Netflix a Coca Cola: la personalizzazione è il futuro dei brand

Se in passato un brand poteva apparirci come un mezzo per acquistare rispettabilità sociale o un segno di appartenenza a un determinato gruppo, oggi ci auguriamo che il prodotto risponda innanzitutto alle nostre esigenze individuali. Parafrasando un noto libro dello scrittore Francesco Piccolo, a guidarci nei piccoli e grandi acquisti quotidiani (spesso effettuati con facilità sul nostro smartphone) è il «desiderio di non essere come tutti».

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Il “petrolio” della nostra era: i dati. Una logica alla quale si sono abituati con rapidità i grandi marchi internazionali, anche grazie alle infinite potenzialità del web e al notevole valore informativo che deriva dal “petrolio” della nostra era: i dati. Basta un clic su un sito di e-commerce o una sbirciata in un motore di ricerca per contrassegnarci inevitabilmente come possibili acquirenti di un prodotto.

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Cambiano i media o le nostre abitudini?

La crisi dei media così come li conosciamo sembra una tendenza ormai ineluttabile. Peccato che questo tema venga troppe volte affrontato in modo generico e raramente sviscerato in profondità e con lo sguardo rivolto oltre il presente. Un’eccezione in tal senso è il volume pubblicato di recente dal collega Vittorio Meloni, direttore delle relazioni esterne di Intesa Sanpaolo, intitolato non a caso Il crepuscolo dei media (Laterza). Un’analisi rigorosa e documentata dei contraccolpi provocati dal digitale in termini di crescita e sostenibilità economica del settore, che pone però le basi per un’interessante riflessione sugli elementi che lo potrebbero rendere finalmente “a prova di futuro”. Anche io sono convinto che i declinismi di comodo non ci portino molto lontano. Partiamo dunque dalle basi: qual è la funzione sociale e la ragion d’essere dei media?

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L’informazione è la “materia prima” che ci aspettiamo, sia come produttori sia come consumatori, quando ci rivolgiamo a essi. Un settore, quello dei media, che non si è certo sottratto allo tsunami dell’innovazione che negli ultimi decenni ha cambiato in profondità tutti i comparti, in modo più o meno evidente e doloroso. C’è da dire però che nessuno di noi tornerebbe mai al passato, né da un lato né dall’altro della barricata: i giornalisti si riadatterebbero con molta difficoltà alla vecchia macchina da scrivere, mentre noi lettori non saremmo più in grado di attendere il notiziario della sera o il quotidiano del giorno dopo per avere informazioni su argomenti di nostro interesse.

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Campagne elettorali online: il rigore è fondamentale

Il caso Dirty Campaigning sta dominando la campagna elettorale in Austria, dove si vota il prossimo 15 ottobre. Una tornata che, a differenza delle recenti elezioni in Germania, non ha avuto grande risonanza in Italia, con l’eccezione dell’interessante intervista di Paolo Valentino al Cancelliere Christian Kern, pubblicata lo scorso fine settimana sul Corriere della Sera. Eppure lo scandalo innescato dalla scoperta di alcune tattiche diffamatorie adottate sui social media dal team del Partito socialdemocratico (che ha proprio Kern come candidato) rappresentano un interessante caso di studio per chi si occupa di comunicazione elettorale: l’arena digitale è un campo da presidiare in modo strategico, che può rivelarsi però una fonte di rischi per l’immagine pubblica del nostro candidato.

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Il caso Sulberstein. A sconvolgere una campagna elettorale che arriva al termine di ripetute elezioni per la Presidenza della Repubblica e alla fine prematura dell’attuale legislatura è stata la scoperta che un consulente dei socialdemocratici, Tal Silberstein, avrebbe scelto di screditare il candidato dei Popolari, il giovane Sebastian Kurz, mettendo in piedi pagine Facebook apertamente denigratorie nei suoi confronti. Silberstein è stato arrestato lo scorso agosto per reati non connessi alla campagna elettorale, ma le rivelazioni di alcuni media austriaci hanno messo di colpo sotto la luce dei riflettori l’aspetto più oscuro dei social media: da amplificatori delle attività “offline” del candidato a trasmettitori di informazioni negative sugli avversari.

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Per comunicare il patrimonio culturale tiriamolo giù dal piedistallo

La società in cui viviamo è alla costante ricerca di contenuti: originali, innovativi, stimolanti. L’avvento dei media digitali, dal classico Facebook al vivacissimo Snapchat, hanno cambiato in profondità le modalità tramite le quali accediamo ad essi: immagini e video sono sempre più ciò di cui andiamo alla ricerca, compulsando il nostro smartphone o navigando sul web. Immagini che hanno attraversato esse stesse una vera e propria rivoluzione. Nell’ormai lontano 1888 il fondatore di Kodak, George Eastman, coniò il geniale slogan “Tu premi il bottone, noi facciamo il resto”.

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Oggi invece l’utente-tipo può immortalare all’istante un’immagine con il suo cellulare e ha un unico imperativo: condividerla con la propria rete di “amici” e follower. Ognuno diventa quindi un trasmettitore, in una corsa contro il tempo che richiede velocità e immediatezza nel diffondere ciò che viene riconosciuto come bello o emotivamente importante. Dal punto di vista del comunicatore, i contenuti ad effetto che dobbiamo intercettare o amplificare sono dunque spesso generati dalla stessa audience che vogliamo ingaggiare.

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