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Più Soldi Ai Politici: Così Gli Usa Possono Limitare Le Lobby

Più soldi ai politici: così gli Usa possono limitare le lobby

Il bilancio operativo 2014 del parlamento americano ammonta a quasi 2 miliardi di dollari (1,16 miliardi per la House of Representatives, 820 milioni per il Senato), comprensivi delle spese per il personale di servizio.

Una cifra importante, ma che rappresenta tuttavia all’incirca il 25% in meno rispetto a quanto spendono le big corporation per lobby e attività di pressione proprio tra i loro di senatori e deputati.

 

Secondo il politologo Lee Drutman, autore del libro The Business of America is Lobbying, questo divario implica due ordini di problemi: il primo riguarda il livello d’informazione dei membri del Congresso, il secondo gli obiettivi e la carriera di questi ultimi.

UN MIX DI PERSUASIONE E INFORMAZIONE. Il vero lavoro di un lobbista è un mix di informazione e persuasione. Nessun membro del Congresso può dirsi esperto su ogni questione che passa sulla sua scrivania. Sono realmente competenti su alcune, mentre su altre sono spinti più da ragioni ideologiche o da interessi localistici che da una vera e propria conoscenza della materia.

Ed è proprio nel divario tra il numero di problematiche che i membri del Congresso sono in grado di gestire e il numero di questioni cui sono chiamati a decidere che si inserisce il potere informativo e di influenza dei lobbisti, non solo americani.

VANTAGGI NON SOLO ECONOMICI. Il lavoro di un lobbista è volto a ottenere prolungamenti ad agevolazioni fiscali o modifiche tecniche a tutta una serie di leggi che non fanno notizia, ma che si traducono in vantaggi economici (e non) per le aziende rappresentate da K-Street.

Il problema è semplice: se le aziende hanno più soldi per in-formare il Congresso, i lobbisti riusciranno a portare i parlamentari a scegliere per il “meglio” su un gran numero di questioni, dal momento che i politici non avranno modo di acquisire quella competenza altrove.

DAL CONGRESSO ALLE SOCIETA’ DI LOBBY: IL FENOMENO DELLE REVOLVING DOORS. Il secondo ordine di problemi riguarda invece il percorso professionale dei politici americani e dei loro staff. Il Center for Responsive Politics ha rilevato che più del 50% dei membri del Congresso che hanno lasciato il proprio incarico dopo il 2010 sono diventati lobbisti o svolgono attività affini.

Il fatto che le organizzazioni spendano più soldi dei contribuenti per finanziare il Congresso, implica un divario retributivo tra i professionisti del Campidoglio e i lobbisti che lavorano a stretto contatto con loro, e questo i politici lo sanno.

Un tema, quello delle cosiddette revolving doors, sul quale si sta discutendo nella riforma che dovrebbe portare alla regolamentazione delle lobby.

«IL CAMPIDOGLIO NON È UN PUNTO D’ARRIVO». Come ha dichiarato un parlamentare americano, evidentemente deluso, «il Congresso non è più una destinazione, ma solo un momento di passaggio. Gli incarichi nelle commissioni hanno valore in quanto tappe di un colloquio più lungo per un posto di lavoro come lobbista di K-Street».

Dichiarazione che fa il paio con le parole di Jack Abramoff, ex squalo di K-Street, che nelle sue memorie ha scritto: «Quando hai finito di lavorare per il membro del Congresso, dovresti venire a lavorare per il mio studio».

Secondo Drutman, la soluzione – che da noi aprirebbe un dibattito infinito – per eliminare il problema è semplice: spendere più soldi per il Congresso. È necessario ridurre il divario che esiste tra il Congresso e le lobby, pagando un salario più alto ai parlamentari e il loro personale, e aumentando i fondi per le risorse informative del Campidoglio.

IL PROBLEMA È LA TRASPARENZA. Se in America per far fronte alle lobby si prospetta l’aumento di salari e fondi al parlamento, in Italia invece abbiamo da poco deciso di abolire i rimborsi elettorali, ma per Camera e Senato continuiamo a spendere poco meno di 1,5 miliardi di euro, con la differenza che il nostro parlamento non gestisce un budget di 4 mila miliardi di dollari annui come negli Usa.

Per molti l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti è stata una conquista verso un modello più democratico e, se vogliamo, più americano, basato sui finanziamenti privati e sulle fondazioni politiche. Ma le 45 fondazioni e i think tank nati in Italia dal 2001 a oggi rischiano semplicemente di farci fare un passo indietro, perché costituite senza nessun obbligo di trasparenza dei bilanci né dei finanziatori.

In Italia la tanto auspicata legge sulle lobby passa anche da un’attività didisclosure sulle attività delle fondazioni e dei think tank, perché il finanziamento ai pensatoi dei politici è uno degli strumenti fondamentali che hanno a disposizioni le lobby per esercitare pressione e fare attività diadvocacy. È la mancanza di trasparenza che fa entrare queste attività nella terra di mezzo dell’illegalità.

Twitter @gcomin

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