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Se La Città Finisce In Rete

Se la città finisce in Rete

di Antonino Saggio

La città industriale incorporava nella propria logica formativa quella dell’organizzazione tayloristica del lavoro. Una logica che si traduceva in scelte sia dal punto di vista organizzativo che da quello fisico. Lo zoning è il principio urbanistico attraverso il quale lo spazio veniva concepito, organizzato, regolato, progettato: ciascuna zona della città industriale o “moderna” era organizzata attraverso specifici standard, densità e tipi edilizi e soprattutto una specifica funzione. Ora residenziale, ora industriale, ora terziaria o direzionale. Ogni zona veniva messa “in serie” – come l’anello di una catena – con un’altra zona funzionalmente distinta in maniera da ottimizzare la produttività generale. Se la casa è una macchina per abitare, come diceva Le Corbusier, la città è una macchina per produrre!

Ma, nella civiltà dell’informazione è ancora la catena di montaggio il modello della produzione? Naturalmente risponderemo con facilità. Alla catena di montaggio si è sostituita oggi – quale strumento principe della produzione – “la rete” e all’automobile come oggetto catalizzante si è sostituito il computer.Ecco allora che da questi assunti, come fossero due molecole di DNA, tutto cambia.Se noi sostituiamo alla catena di montaggio la rete, si scoprirà che i processi produttivi non sono più lineari, ma come è del tutto ovvio, interconnessi, interrelati, interattivi come sono i modelli informatici che ne sono alla base. Anche il tempo cambia. Al tempo ciclico ruotante con gli stessi ingranaggi delle ruote dentate, (ora produttivo, ora ludico, ora di riposo), la città dell’informazione tende a sostituire un intreccio che sovrappone i tempi e rende tutto disponibile, sempre e ovunque. Possiamo lavorare in ogni momento, perché questo ci permettono i nostri cordoni ombelicali informatici, possiamo anche contemporaneamente lavorare e passare il tempo libero, produrre e consumare e, tra non molto, dormire apprendendo. Se l’auto era lo strumento per spostarsi nelle diverse zone, il computer ci permette di essere quasi ubiqui. Non solo lavorare ovunque, ma anche essere spesso ovunque ci interessa essere. Spazio e tempo si riconfigurano completamente nel nuovo sistema produttivo.

Il modello di città che ne scaturisce è diverso. Se l’architettura del passato voleva essere essa stessa costruzione regolata di un tempo meccanicamente ripetitivo, la città di oggi piuttosto che costruirlo ha la tendenza ad annullarlo il tempo, attraverso il battito del bit che ricrea continuamente informazioni e immagini sullo schermo. Ad una forma mentis lineare, (prima e dopo, causa ed effetto, if… then) legata alla produzione seriale e meccanizzata, si sostituisce oggi quella della simultaneità dei processi, della ramificazione dei cicli, della compresenza delle alternative, insomma vince il principio dell’ipotesi, del “what..if”, ovvero del “che cosa succederà” se modifico questo parametro o questa variabile? E alle linee parallele della catena di montaggio si sostituisce il triangolo ramificato della rete che è certo internet, ma è anche allo stesso tempo moltissimo altro: una rete che diffonde interrelazione, interconnette, rende globale e locale lo sviluppo dei processi. Tutti questi fattori si traducono, dal punto di vista fisico, e nel contesto della città dell’informazione, nella perdita di centralità dell’idea di zoning e di omogeneità funzionale, perché la città dell’informazione tende a riaggregare, combinare, sovrapporre e intrecciare le funzioni. Uno degli aspetti fondamentali di questo cambiamento è l’affermarsi del fenomeno della “mixité”. Il fatto cioè che le parti di città, e con esse i progetti, invece di aderire ad una sola funzione – la zona residenziale, la zona terziaria, la fabbrica, la scuola, la residenza – del vecchio zoning tendono ad essere ogni volta una combinazione, un mix appunto, delle diverse attività.

Basti guardare al grado di mixité che hanno oggi quelle che una volta si chiamavano stazioni o aeroporti, ma anche i musei o centri commerciali o i campus universitari, o pensiamo allo stadio. Lo stadio monofunzionale è un residuo del passato ed è una perdita economica, quello che funziona oggi deve vivere e fare cento cose diverse.

D’altronde il multitasking non è una caratteristica saliente dei nostri pc? La città di oggi tende ad assomigliare ai nostri stessi computer, tende ad operare con le modalità dei computer medesimi esattamente come la città dell’industria non solo era fatta “per” l’automobile, ma tendenzialmente era basata sugli stessi processi produttivi (la catena di montaggio), sulla stessa idea di standard, gli stessi principi logici e, nei casi più estremi, gli stessi principi formali (si pensi a quanto idearono le avanguardie artistiche, del Futurismo, Costruttivismo, Neoplasticismo, Purismo).Ma la chiave della mixité non è solo la pure e semplice compresenza multitasking delle funzioni, quanto la capacità dell’insieme di avere la forza di una “comunicazione narrativa” affinché l’esito sia dotato di senso, sia dotato di immagine, sia comunque dotato di storia e si possa inserire nei nuovi parametri produttivi e comunicativi della civiltà dell’Informazione. La chiamiamo “driving force” ed è la caratterizzazione trainante di un progetto, tanto alla scala di un singolo oggetto di design che di una parte di città. La driving force deve essere tanto radicata in profonde ragioni sostanziali, contestuali ed economiche che proporsi con coraggio nuove ipotesi. Una volta la mixité si struttura attorno alla driving force di un campus per lo studio del territorio, in un altro nuovo centro di produzione cinematografici, in un altro sviluppa la valorizzazione ambientale o dei percorsi storici, in un altro affronta il tema del cibo o dell’automobile. 

Quando il sistema funziona, la mano pubblica orienta i principi generali e negozia i massimi vantaggi per la collettività, il privato realizza, gestisce dà occupazione e trae reddito. Se volessimo sintetizzare alcune differenze tra città dell’informazione e città della industria diremmo allora: Reti contro Catena di montaggio, Mixité contro Zoning, Computer contro Macchina e Narrazione versus Monofunzionalità.

Ora questi cambiamenti comportano ulteriori e rilevanti conseguenze. Ne indichiamo alcune.

Il più macroscopico effetto riguarda la dismissione di enormi aree – le cosiddette “Brown areas” – del vecchio modello della produzione industriale. Cosa fare, come dare una indicazione a queste aree che sia coerente e propulsiva all’idea di città della Informazione è una grande ed interessante sfida. Molti casi eclatanti vi sono nel mondo di oggi, di nuove possibilità legate alle dismissioni delle aree ex industriali. Di nuovo una infrastruttura industriale dismessa viene rivitalizzata grazie all’azione dei cittadini e oggi genera ingenti aumenti di occupazione oltre che di valore immobiliare. Alla scala degli edifici i progetti sono numerosissimi, per fortuna con qualche caso anche in Italia (si pensi al Lingotto di Torino), ma il capostipite è il Museo Guggenheim a Bilbao appunto creato in una area industriale dismessa che si trasforma in luogo di pellegrinaggio culturale per milioni di cittadini. Come interventi in intere parti di città, invece, Potsdamer Platz a Berlino è il primo esempio su larga scala in Europa.

La presenza delle aree dismesse indica tra l’altro che piuttosto che prefigurare una espansione infinita della città, forse vale la pena infittire ed intessere nuove relazioni operando all’interno. All’idea di far-west, e cioè alla conquista infinita di un territorio dove corrono inesorabili i binari paralleli della ferrovia o dell’autostrada, la città dell’informazione deve sostituire quella dell’in-between: dell’operare “tra” e “nelle” cose.

L’idea di crescita infinita legata al modello industriale comporta una progressiva depauperazione del pianeta. La città non può crescere all’infinito, non può produrre costantemente beni che poi diventano scarti. Il processo, in una parola, non può essere lineare “Input–Output” ma deve essere “Input–Output– Input.” 

Le sfide della città dell’informazione risiedono innanzitutto nel suo avvicinamento alla scienza e alla tecnologia contemporanea. Nonostante questi anni di crisi economica, l’accelerazione delle scoperte scientifiche nel campo dei nuovi materiali, sempre più interattivi, intelligenti, depuranti eccetera, o delle tecnologie delle componenti energetiche sia attive – (che cioè catturano con apparati fisici energia e la trasformano) sia passive (che cioè studiano le conformazioni più adatte della città e degli edifici) sono impetuose. Intere città si riconfigurano su questi principi e si muovono su queste linee. 

Non bisogna necessariamente cambiare tutto d’un colpo, ma mettere a sistema le situazioni. Ad esempio il problema dei rifiuti, o quello dei trasporti, o quello dell’inquinamento dei veleni, ogni situazione può indicare un progetto in una direzione positiva. Il tema del risarcimento urbano dal punto di vista ambientale si muove in tutti i processi di miglioramento dell’ambiente e dell’inquinamento metropolitano che molteplici interventi e finanziamenti in chiave europea, a cominciare da Agenda 2000, promuovono. 

La città è il più grande artefatto creato dell’umanità quale sistema di accelerazione delle proprie capacità produttive e saperla capire e progettare oggi determina valore. Parlare di smart cities può essere importante e decisivo, quindi, soprattutto quando se ne comprendono le ragioni. Il lettore a questo punto si può chiedere: e la smart city? L’argomento è troppo importante e rimandiamo a una nuova trattazione o al libro recentissimo che ho curato ne Gli Strumenti, autore Andrea Ariano Infocity Informatica e società. Impatti locali e globali da una prospettiva ecologica edito da Vita Nostra edizioni.

Antonino Saggio. Architetto e urbanista è professore ordinario presso il Dipartimento di Architettura presso la “Sapienza” Università di Roma. Ha fondato la collana internazionale “The IT Revolution in Architecture” Edilstampa e Birkhäuser. L’ultimo suo libro si intitola Architettura e modernità. Dal Bauhaus alla rivoluzione informatica (Carocci, 2010). Una nuova edizione del suo classico Giuseppe Terragni. Una biografia critica è stato appena pubblicato con prefazione di Peter Eisenman per Lettera Ventidue edizioni.

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